Togliersi la vita. Scegliere di togliersi la vita per zittire definitivamente quel tormentato trambusto di pensieri ed emozioni negative che avvelenano la vita.
Sempre più giovani individuano nel suicidio la strada, breve e definitiva, da percorrere per giungere alla risoluzione dei problemi che grondano nelle loro esistenze.
La disoccupazione: il carnefice senza mani né volto che seguita a mietere un numero sempre più elevato di giovani vite.
Vergogna, frustrazione, desolazione, disperazione, angoscia, costernazione, sofferenza: questi gli stati d’animo che annebbiano la lucidità di una mente imbrigliata in quel vortice di cupo torpore emotivo, originato e fomentato dall’incessante susseguirsi di “le faremo sapere”, “c’è crisi”, “abbiamo esigenza di assumere personale già esperto”.
Pochi giorni fa, a Pomigliano d’Arco, ancora una volta, un giovane ha scelto di “archiviare la pratica lavoro” lanciandosi dalla finestra della sua stanza, per andare incontro alla morte.
A raccontare quello che un simile ed estremo gesto è in grado di sortire nelle vite di chi resta a piangere quella morte suicida è proprio la madre di un ragazzo che ha scelto di togliersi la vita, perché disoccupato.
“Vi scrivo dopo aver appreso la notizia di un ragazzo che si è suicidato perché non riusciva a trovare lavoro. Non lo posso accettare, non ce la faccio. Tutte le volte che succede è come se perdessi mio figlio un’altra volta. Mio figlio aveva 20 anni ed era padre di un bambino di due anni. Non è mai stato portato per lo studio, ma si è sempre dato da fare, ha sempre lavorato, da quando aveva 13 anni. Sacrifici, buona volontà ed umiltà non gli sono mai mancati e da quando è diventato papà, anche di più.
“Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me”, diceva sempre.
Durante l’ultimo anno, però, le cose si sono messe male. Ha iniziato a collezionare rifiuti, trovare un lavoro diventava sempre più difficile. Allora, ha iniziato a chiudersi in sé stesso, rassicurava tutti, dicendo che andava tutto bene e questo è il mio più grande rammarico: non aver avuto la prontezza di leggere la disperazione che mio figlio nascondeva dentro di sé.
È successo tutto in 24 ore. Quel maledetto giorno, mi arriva una telefonata, era lui: “Mà, andiamo a vivere dai miei suoceri. Adesso non posso spiegarti, ma non devi preoccuparti. Ti voglio bene.” E riattaccò. Dopo circa un paio d’ore, mi arrivò un’altra telefonata, quella che non avrei mai voluto ricevere.
Mio figlio a casa dei suoceri non è mai arrivato.
Mio figlio si è buttato giù dal terzo piano, dalla finestra di quella casa che non poteva più essere sua.
“Non riesco a vivere con la vergogna di essere disoccupato. Perdonatemi.”
Di lui, oggi, resta solo questo biglietto, tanti ricordi, un bambino che cresce lanciando baci verso il cielo, tutte le volte che pronuncia la parola “papà” e un dolore misto a rabbia che diventa sempre più forte. Giorno dopo giorno.
Quel biglietto che racchiude le sue ultime parole l’ho imparato a memoria a furia di leggerlo. Tutte le volte che lo leggo, spero di scoprire qualche parola nuova, diversa, che possa colmare il grande vuoto che mio figlio mi ha lasciato. Ogni giorno che passa, mi rendo sempre più conto di quante parole avevamo ancora da dirci e di quanto non mi basteranno mai le poche ed ultime parole che mi ha lasciato.
A tutti i ragazzi che vivono nella sua stessa condizione dico di non disperarsi e di non commettere lo stesso errore di mio figlio: parlate con i vostri genitori, non abbiate paure né timori.
I genitori sono sempre pronti ad aiutare i figli, esistono per questo e li amano più della loro vita. Non date mai ai vostri genitori un dolore simile, perché è la sofferenza più grande che potete infliggergli.
Non esistono problemi irrisolvibili ed essere disoccupati non è una vergogna vostra, ma di chi vi sta negando i vostri diritti e non è in grado di mettervi in condizione di costruirvi un futuro.”