“Al magistrato Nino Di Matteo va la conferma di ammirazione e gratitudine di tutta la città di Palermo e dell’intera Amministrazione comunale. Il suo importante e coraggioso lavoro contro Cosa nostra e il sistema politico mafioso è un tassello determinante per la costruzione di una società libera dai vincoli e dalla schiavitù della criminalità organizzata. Quello di lunedì 11 maggio è un giusto riconoscimento ad un grande servitore dello Stato e difensore della legge e della cultura della legalità e, al tempo stesso, è conferma di solidarietà per un servitore dello Stato esposto a minacce e rischi gravissimi”.
Queste, le parole di Leoluca Orlando, presidente dell’AnciSicilia, in riferimento alla cerimonia per il conferimento della cittadinanza onoraria di Messina al magistrato Di Matteo.
Nel silenzio di un paese purtroppo abituato alle stragi, Di Matteo si stava intromettendo in un processo che non doveva neanche iniziare, quello sui rapporti tra Stato e mafia, per questo motivo doveva essere fermato, al fine di non giungere a ‘notizie scottanti’. A rivelarlo, il pentito Vito Galatolo, il boss dell’Acquasanta, teste al processo trattativa Stato Mafia, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi.
Il pm Nino Di Matteo è il magistrato che, secondo lo stesso Galatolo, Cosa Nostra ha deciso di assassinare nel dicembre del 2012. Il ‘picciotto’ dell’Acquasanta, però, non ha raccontato solo i dettagli del piano di morte per Di Matteo. “Quando ero detenuto nel carcere di Parma – ha spiegato Galatolo – altri mafiosi detenuti mi raccontavano di continue visite di 007: queste confidenze mi vennero fatte da Cristoforo Cannella, Francesco Giuliano ed Enzo Aiello, mentre uno che con i servizi ci parlava spesso era Nino Cinà”.
Galatolo ha introdotto la sua deposizione davanti alla corte d’Assise di Palermo raccontando i particolari dell’attentato studiato da Cosa Nostra per assassinare Di Matteo: un’esecuzione ordinata da una lettera di Matteo Messina Denaro, arrivata al boss di San Lorenzo Girolamo Biondino.
“Per l’attentato servivano cinquecentomila euro che Messina Denaro non poteva fornire: io contribuì con 360mila euro, mentre il boss di Palermo centro Alessandro D’Ambrogio e Girolamo Biondino con 70 mila euro a testa: il tritolo arrivava dai calabresi, erano duecento chili, ma cento erano danneggiati dalla salsedine e vennero rispediti indietro”. Secondo Galatolo a volere quell’esecuzione non sarebbe stato però solo Messina Denaro: “Quando siamo venuti a sapere che l’artificiere da utilizzare nell’attentato al pm Di Matteo non era di Cosa Nostra, ma era esterno, a quel punto abbiamo capito che dietro al piano c’erano soggetti estranei alla mafia, apparati dello Stato, e che eravamo coperti, come nelle stragi del 1992”.
L’attentato doveva essere fatto, in un primo momento al palazzo di giustizia, nei pressi della porta carraia da cui entrano i carcerati. Successivamente, per motivi logistici, i mafiosi cambiarono il luogo in cui colpire, ipotizzando di piazzare un ordigno anche nella casa in cui il magistrato trascorreva abitualmente le vacanze. “Difficoltà ad individuare il luogo in cui colpire, l’arresto di Alessandro D’Ambrogio e il pentimento di mia sorella -ha aggiunto Galatolo– i motivi che fecero rallentare le attività”.
Secondo Galatolo, tuttavia l’ordine di Matteo Messina Denaro “era di andare avanti”, non c’è mai stato un ordine contrario, di revoca dell’attentato.
Galatolo parla delle lettere fatte recapitare da Messina Denaro. “Sta andando troppo avanti e si deve fermare. Dobbiamo organizzare un attentato al pm Di Matteo. Se ve la sentite ditelo a Mimmo Biondino“. Il capomafia avrebbe voluto uccidere il magistrato perchè col processo sulla trattativa si era spinto “troppo oltre”, e voleva inoltre vendicarsi di due pentiti: Gaspare Spatuzza e Nino Giuffrè.
Galatolo ha successivamente riferito di altre “singolari” attività dei Servizi segreti che avrebbero offerto soldi al pentito catanese Enzo Aiello per scagionare dalle accuse di mafia l’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo, poi condannato. “C’era un via-vai di agenti dei Servizi segreti nelle carceri per avere contatti con capimafia al 41bis. Uno che ci parlava spesso – ha aggiunto – era Nino Cinà“.
E mentre al Tribunale di Palermo si ascoltano parole di morte, in un paese che ha già vissuto le stragi più nefaste ma non ne ha mai svelato i retroscena oscuri, dai vertici dello Stato si percepisce un silenzio sempre più ingombrante, anche dinanzi alle bocciature del Consiglio superiore della magistratura alle domande dello stesso pm Di Matteo per un avanzamento di carriera mai arrivato, che alleggerirebbe il peso del pericolo stesso.