La storia di Ivan, in arte Ivanò, è scritta tra le rime che frettolosamente e puntualmente “spara”, quando impugna un microfono, quando sale su un palco, quando percorre qualsiasi emozione utile a dare libero e sincero sfogo a quel bisogno di musica, diventato, poi, “bisogno di fare musica” e che, un giorno dopo l’altro, hanno disegnato una strada sempre più marcata, di certo, non priva d’insidie, ma scalfite da un groove caparbio e deciso che ha accompagnato e motivato i passi di una voce che non ha mai saputo né voluto fare un passo indietro.
Una strada nata in un contesto diverso, distante da quello musicale.
Sono nato e cresciuto a Ponticelli, nel cuore di Napoli est, mio padre lavorava nelle sale giochi, erano gli anni ’90 e tra flipper e stacchetti dei videogame, aleggiavano le canzoni di Nino D’Angelo. Successivamente, ci siamo trasferiti a Volla ed è lì che mi sono avvicinato alla cultura hip hop, attraverso il fascino evocato dai colori e dalle forme dei graffiti. Del resto, questa è la patria di diverse icone in materia: Luca Eno, Raffo.
Mentre Antonella, una mia amica che amava andare in giro con i pattini, mi trasmise questa passione. Attraverso una strada ben più larga, ho quindi costeggiato l’hip hop inconsapevolmente. In quel periodo sfogliavo delle riviste cult in materia, ma prestavo attenzione solo ai graffiti, ignaro del “mondo” raccontato dalle restanti pagine che personificavano un’autentica “Bibbia” dell’hip hop. Furono i miei amici dell’epoca ad esortarmi a conoscere quella realtà che maneggiavo senza rendermene conto. Giunsi così a familiarizzare con le sfumature musicali che colorano i cosiddetti “ghetti” che tanto hanno in comune con le nostre periferie. E, probabilmente, per questo ne sono stato sempre più attratto. Riuscivo a sentire “mia” quella musica. E, a un certo punto, non so come, ma so perché, lo è diventata davvero.
Iniziai a comprendere davvero cos’è il rap, nello stesso periodo in cui conseguivo la licenza media, dividendomi tra le esperienze collezionate con FATO, Andrea B1, me ne andavo in giro con la mia “banda di vandali” ad imbrattare la città, disegnando graffiti.
Con il trascorrere degli anni, il rap, in particolare quello americano, piuttosto che “quello serio” di casa nostra, hanno assunto un ruolo sempre più egemone e preponderante nelle mie giornate, fino a disegnare una desiderio/bisogno insistentemente presente e sentito.
Avvicinandomi al rap ho capito che, al primo impatto, quelle strofe “sparate” tanto velocemente sembrano non aver senso, appaiono incomprensibili ed indecifrabili. Poi, se le ascolti meglio, se riesci a “sentirle”, ti accorgi che esprimono pensieri e raccontano storie incredibili. Ho iniziato, così, a scrivere le mie prime cose.
Rime, strofe, sfoghi, sensazioni, emozioni, stati d’animo, ricordi, aspettative, sentimenti, convertiti in parole e scalfiti su un foglio che ha preso ben presto il posto dell’”amico immaginario” che mi accompagnava da piccolo.
Ciò nonostante, proprio non riuscivo ad ambientarmi a Volla. Continuavo a sentirmi più legato, più vicino alla realtà di Ponticelli. Era lì che volevo vivere, era lì che volevo intrecciare i miei rapporti umani. Invece, grazie al contesto che mi ha offerto e proposto Volla, sono riuscito a legarmi a persone che mi hanno avvicinato sempre di più al mondo del rap, aiutandomi ed insegnandomi ad affinare questa passione, arricchendola di consigli ed esperienze.
Dalla scuola, – cosa che non avrei mai immaginato – mi giunse la prima, concreta opportunità di mettermi in gioco.
Una professoressa di Rimini mi propose di partecipare al concorso per parolieri e gruppi musicali “Non sparate sul pianista”. Più per gioco che animato da “velleità di vittoria” decisi di partecipare alle selezioni. Non so come, né perché, tra più di 200 ragazzi, fui scelto anche io. La Prof. ospitò me e il compagno di viaggio con il quale dividevo l’avventura, il brano e il palco. Partecipammo con “Come il vento” e, su un palco “italiano”, cantai la mia strofa in dialetto. Quella fu la mia prima esibizione e tremavo per quanto era forte l’emozione che mi batteva in petto. Quel giorno due ragazzi di Napoli, un 16enne e un 17enne, gli unici minorenni che partecipavano alla gara, conquistarono il 3° posto.
Dopo una breve e meravigliosa esperienza in una “vera” band musicale che mi portò a fare freestyle su arrangiamenti strumentali jazz in chiave hip hop, nacque “La Pankina”.
Agli albori, era molto di più di un progetto musicale, tra breaker, ballerini hip hop e funk, erano plurime e variegate le figure che, idealmente e materialmente, si riunivano intorno alla panchina.
Oltre a noi, a Volla, viaggiavano nella stessa direzione ed animati dalla stessa passione, Nicola e la sua crew, con il quale, nell’ambito di alcune esibizioni nei locali della zona, ebbi il primo approccio in ambito musicale.
Le nostre crew si sciolsero praticamente in contemporanea ed è così che iniziammo a frequentarci ed, insieme, bazzicavamo nei contesti in cui potevamo interagire con gente adulta, tra jam e concerti. Ascoltando dischi a base di rap americano, pregni di quel sound molto più underground, assorbivo quello stile nelle mie corde, mentre la voglia di scrivere diventava un punto sempre più fermo, oltre che il fulcro intorno al quale ruotavano le mie giornate, le mie ispirazioni.
Dopo un breve percorso “a tre”, terminata l’esperienza con Marco, siamo rimasti io e Nicola, quella che oggi posso definire la mia “anima gemella”, con lui, nel tempo, ho intrapreso un cammino parallelo: due realtà rap della zona che si sono trovate ad affrontare nello stesso momento, la stessa situazione, quando le rispettive band si sono sciolte, abbiamo saputo e voluto fondere le nostre strade per imprimere ai nostri sogni un unico cammino. Musicale e non solo.
E, così, anche grazie all’ingresso di Donix, siamo una famiglia che si chiama La Pankina Krew.
Fare musica rappresenta un’opportunità, per me il rap è una valvola di sfogo. Sono molto legato alla musica italiana, per merito di mio padre che mi ha educato a pane e Battisti, Dalla, Venditti, oltre che alla musica classica napoletana, grazie a Nicola che mi ha trasmesso questa sua passione.
La nostra musica racconta le storie della nostra terra, racconta chi siamo. Così come il mio stile, sempre aggressivo e competitivo, nel quale riverso la rabbiosa gratitudine che provavo e che tutt’ora nutro per la musica, perché, grazie a lei, non mi sono legato alle brutture che il contesto nel quale vivo da sempre è in grado di offrirti, rispecchia, per l’appunto, la mia riconoscenza verso la musica che mi ha tenuto alla larga dai guai. Ancor più lo sono nei riguardi di questo contesto, della mia realtà, della mia terra, perché, se i miei occhi non avessero incrociato un graffito, non sarei entrato in empatia con il mondo che ruota intorno a quest’arte grafica urbana, fino a diventarne parte.