Pochi istanti, turbolenti e sussultori. Bastano pochi istanti per dilaniare, devastare, tramortire al suolo e cancellare. Tutto. Laddove sotto la voce “tutto” è davvero inclusa “qualsiasi cosa”: case, cose e soprattutto vite. Tante vite. Tantissime vite.
Il terremoto.
Una calamità naturale violenta, temibile, temuta, legittimamente, in quanto triste e certo sinonimo di distruzione e morte.
Sempre ed irreversibilmente.
In ogni parte del mondo in cui decide di manifestare la sua egemone prevaricazione.
Bambini, donne, uomini, anziani, indistintamente tumefatti dalle macerie, tra le macerie.
Villaggi, città, futuri, sogni, falciati e sradicati dall’illusoria convinzione che dare per scontato il domani sia legittimo, sensato, “normale”.
“La normalità” viene bruscamente scaraventata in un incubo nel quale occhi sopraffatti dal dolore e dalla paura fungono da colori dominanti.
No, quella non può essere definita “la normalità”. È solo un punto di non ritorno che con veemenza urla e sancisce che niente sarà mai più come prima.
Niente. Mai più.
Tutte le volte che si palesa, il terremoto, attraverso quella cruda escalation di scene di disperazione e depredazione che si susseguono, ricorda proprio questo, ci ricorda proprio questo.
Non esistono vite incolumi, non esistono occhi immuni, né coscienze impenetrabili. Da qualsiasi prospettiva la si guardi, con gli occhi di dentro o di fuori, la morte spaventa sempre.
La morte non ha un’identità geografica. La morte non ha sesso.
La morte non appartiene ad un’estrazione sociale.
Eppure, troppo spesso, dimostra di provare un perverso ed incomprensibile piacere nell’accanirsi contro chi non ha nulla, se non la vita. Forse è per questo che nel veder sottrarre “tutto”, laddove quel “tutto” è sinonimo di vita, non si può che rimanere sopraffatti da un senso di rabbioso e preponderante dolore.
Il terremoto ricorda che non siamo padroni di “niente”, perché niente vale ciò che crediamo di possedere quando l’indicibile forza della natura vomita la sua feroce rabbia nei nostri giorni per seminare il “niente”.
Non siamo padroni di niente. Meno che mai delle nostre vite.