Feroce e tragica fu questa figura di donna, considerata fin dall’antichità come il “genio del male al femminile”: Medea.
La tradizione micenea la vuole al fianco dell’eroe Giasone, uno degli Argonauti partiti dalla Grecia per la Colchide, alla conquista del “Vello d’Oro”. Secondo il mito, Giasone sposò Medea promettendo, davanti agli Dei, di amarla per sempre. Tornati in Grecia, però, l’eroe commise il suo più grave errore: si innamorò della bella Creusi, (o Glauce) figlia di re Creonte e la sposò, abbandonando Medea. La vendetta della maga, nipote della ancor più potente maga Circe, fu tremenda.
Fingendosi rassegnata, l’implacabile Medea inviò il suo dono di nozze alla novella sposa: una corona d’oro e un manto bianco.
Appena, però, la sposa ebbe indossato la veste nuziale, questa prese fuoco provocandone la morte e quella di tutti coloro che si trovavano a Palazzo; Giasone si salvò solo perché riuscì a buttarsi giù da una finestra.
Non ancora soddisfatta, Medea giunse ad escogitare e mettere in atto la più orrenda delle punizioni per il marito infedele: quella di uccidere due dei figli avuti da lui.
Nel 1882, Francesco Mastriani, riprese il mito della Medea micenea e ispirato da un caso di cronaca criminale, scrisse La Medea di Portamedina.
Francesco Mastriani nacque a Napoli ( 23 novembre 1819 – Napoli, 7 gennaio 1891 ) da un’agiata famiglia borghese e fin dagli esordi letterari, mostrò grande attenzione nei confronti delle classi subalterne napoletane.
Mastriani per la resa dei suoi racconti, aggiunge un vasto repertorio di immagini forti e cruente e lo fa attraverso storie di violenze, di delitti, di guarigioni miracolose, morti sospette, decapitazioni, torture, cadaveri imbalsamati e tanto sangue. Nella veste di scrittore, Mastriani ha saputo creare, fino a farle entrare nell’immaginario collettivo, le sue stazioni della paura: le galere, i bassifondi di Napoli, le grotte, i tuguri dove abita una popolazione a metà fra uomini e bestie; i laboratori medici e anatomici, i conventi, i palazzi borghesi – spazi narrativi nei quali l’autore sperimenta il suo brivido macabro.
Una particolare attenzione meritano i suoi personaggi femminili. Mastriani ripropone alcune tipologie di donne tra le più complesse: donne sensuali, donne sfrenate, donne crudeli o donne pietose. Esse sono le aristocratiche, le libertine, le prostitute, le contadine, le fattucchiere, le madri assassine, le amanti dei briganti e quelle dei camorristi. Sono creature che soffrono o fanno soffrire e che sperimentano, direttamente o indirettamente, gli stati d’animo più svariati, come la passione, il dolore, la sofferenza, la nostalgia, l’affetto e soprattutto il brivido della paura.
Medea, la spietata madre di Portamedina, è una Medea tutta napoletana, dalla quale emerge il volto e la condizione dei “bassi” napoletani di fine ‘700.
La vicenda narra di Coletta Esposito, nata figlia di nessuno e abbandonata ancora in fasce, nella ruota degli esposti dell’Annunziata. Vita dura, difficile, spesso priva di calore umano quelle delle ‘figlie di Maria’, destinate in molti casi dopo l’entrata all’Annunziata, alla monacazione forzata, a meno che non ci fosse la possibilità di un matrimonio, di un ‘maritaggio’ che il Conservatorio dell’Istituto imponeva per esigenze di avvicendamento delle esposte. A questo punto Mastriani descrive il costume antichissimo, e rimasto in vigore per molti anni, di radunare le alunne nel cortile della Casa e metterle in doppia fila per presentarle agli scapoli del pubblico che per un voto fatto alla Madonna o solo per capriccio avevano intenzione di chiederne qualcuna in sposa.
I giovani pretendenti passavano in rassegna le giovinette, disposte in due file, e dopo aver fatto la scelta matrimoniale, gettavano un fazzoletto bianco alla ragazza prescelta, che doveva raccoglierlo ‘al volo’ per rendere manifesta l’adesione.
Poichè la ragazza poteva anche rifiutare, nel caso il pretendente fosse stato troppo anziano o deforme e sebbene i regolamenti dell’ospizio non prevedessero un matrimonio per costrizione, la riottosa veniva mandata al Serraglio ( l’Albergo dei Poveri) in cui non conduceva certamente una vita facile e dignitosa.
In breve, le fanciulle riottose, all’Annunziata, non facevano mai una bella fine, per cui di fatto erano costrette al maritaggio.
Coletta fu per questo, costretta a sposarsi un vecchio usuraio, Nunzio Pagliarella. Grazie al suo innato carattere ribelle, riesce a fuggire trovando ospitalita’ da Cipriano Barca, del quale e’ innamorata. Cipriano non potrà resistere alla passione tirannica di Coletta, che lo sceglie, lo manipola e finalmente lo possiede, facendogli giurare di amarla per l’eternità. I due hanno una figlia, ma quando l’amante tradisce Coletta per sposare una ragazza di buona famiglia, questa, come Medea, compie la piu’ feroce delle vendette, freddamente meditata ed eseguita: l’uccisione della figlia.
Se Coletta avesse avuto il pensiero di uccidere il suo amante traditore e la felice rivale, sarebbe stato un pensiero di vendetta razionale, logico e, diremmo anche naturale, ma per Coletta la morte rappresenta solo il supplizio d’un momento, lei invece voleva infliggere all’infame traditore, una ferita al cuore che sanguinasse per sempre, non una freccia avvelenata che lo uccidesse sul colpo, ma una che lo facesse spasimare come un’anima dannata. Egli aveva giurato sulla vita di sua figlia di non tradirla mai e che mai avrebbe amato un’altra donna, lo spergiuro di cui si era macchiato, doveva ricadere sulla sua testa e sul cadavere di sua figlia.
Nel 1991, la Medea di Francesco Mastriani, viene magistralmente portata in teatro da Armando Pugliese, regista attentissimo alla cultura meridionale nelle sue popolari raffinatezze. Per il ruolo di Coletta, viene scelta la grande Lina Sastri, che narra e canta la tragedia umana della protagonista. Cupa, determinata, chiusa in una dimensione d’amore totale, l’attrice è una forza della natura ancorata a un napoletano strettissimo, come a una lingua segreta, che le consente di esprimere le pieghe più profonde del suo essere aldilà delle parole; e pure nel silenzio, raggiunge una forza tragica per lei inedita unitamente a quel senso di estraneità, che illumina la figura di eroina.
“Ho un rapporto con il personaggio di Medea” – dice Lina Sastri – “che risale ai miei studi classici. Anni fa la rincontrai proprio nel romanzo di Mastriani e ne fui sedotta, ma ancora non era il momento giusto. Io credo al destino che, nel mio caso, è stato tornare al teatro dopo un’assenza di circa due anni dedicati al cinema e alla musica. E intorno all’ineluttabilità del destino gira la tematica di questo dramma. La particolarità di Coletta è quella di essere bastarda, diversa, sola, senza un amore. Ed ha il coraggio di compiere una scelta di vita emozionale. Nella tragedia c’è una mancanza assoluta di psicologia, perché le emozioni incontrate sono vissute per quelle che sono e basta”.