Uno dei più antichi ponti della città di Napoli, è il Ponte della Maddalena.
Fu costruito nel 1555 da Don Bernardino di Mendoza, più o meno collocato a ridosso del Castrum Sancti Erasmi, Borgo Sant’Erasmo o Borgo Loreto a Mare, al di là di quel che un tempo fu la foce del corso d’acqua pluviale, detto, il Sebeto, più o meno corrispondente alla porzione occidentale del quartiere di San Giovanni a Teduccio, che resta, collegato a via Amerigo Vespucci, il primo tratto della direttrice di penetrazione costiera alla città.
La denominazione della struttura attuale è tratta da una chiesa voluta nel XIV secolo in onore di Santa Maria Maddalena, nel XIX secolo affidata alla Congrega del Santissimo Rosario e oggi non più esistente.
E’ considerata opera di poca importanza artistica ed archeologica, ma di enorme rilievo storico per la sua funzione urbana. Per molti secoli, rappresenta il fattore unico dell’espansione della città oltre la zona delle paludi napoletane.
Giusto per la funzione storica che assolve, il Ponte fu risparmiato dagli interessi che il Comune mosse nel buttarlo giù durante la fase di bonifica della impraticabile strada di via Marinella. In sostituzione venne deciso di abbassarne l’altezza di due metri e sotto di esso se ne recuperò spazio per l’installazione del tronco ferroviario di collegamento della zona ferroviaria con la Stazione ferroviaria Centrale.
Sul ponte si trovano due grandi edicole sacre in piperno. La prima, posta sulla destra, è dedicata a San Gennaro, la cui statua, disegnata da Francesco Celebrano ed eseguita da un suo allievo su iniziativa di padre Gregorio Maria Rocco per la scampata grande eruzione del Vesuvio del 1767 mostra un braccio steso verso il vulcano, a mo’ di ordine, dal momento che la lava si fermò a poca distanza dal ponte grazie all’intercessione del Patrono. La statua fu qui collocata nel 1768.
Quella di sinistra, attualmente inglobata in un edificio, è dedicata a San Giovanni Nepomuceno, protettore dalle alluvioni e dagli annegamenti. La sua statua fu collocata all’inizio del ponte nel 1731 per la devozione della viceregina, in occasione dei lavori che suo marito, il viceré austriaco conte di Harrach, promosse sul litorale. Infatti fu lui a volere la strada della Marinella, la quale partendo dal castello del Carmine arrivava al ponte costeggiando il borgo Loreto e la caserma di cavalleria del Vanvitelli.
La conformazione delle edicole è alquanto simile, formate da colonne di marmo bianco e frontone triangolare. La loro costruzione omologò stilisticamente ed esteticamente l’ingresso alla struttura. Oggi il ponte non è più riconoscibile in quanto tale, poiché il fiume Sebeto già da tempo è stato interrato.
Ma il Ponte della Maddalena non è solo un’importante via di comunicazione, nelle sue secolari fondamenta, nasconde la storia torbida, del delirio umano.
Esisteva un tempo,una piccola spiaggia dell’antica Neapolis, dove, fin dalla notte dei tempi, acqua e fuoco lottavano per essere padroni di questa terra. I loro nomi erano Vesuvio e Sebeto: il monte Vesuvio rovesciava in mare torrenti di fuoco e ovunque erano pietre arse e Sebeto frantumava sassi, li trascinava in mare e formava distese di sabbia lungo la costa.
Quando i due giganti stanchi riposavano, sul loro campo di battaglia fioriva la verde vita : le gialle ginestre si inerpicavano tra i sassi del vulcano sin quasi alla bocca di fuoco, i cespugli di mirto e lentisco intrecciavano le loro piccole foglie nella fertile pianura e l’erica rosata spingeva le sue radici fin nella sabbia salata. Il fiume quieto, scorreva tra sponde verdi e fiorite e impigrendosi, girava qua e là nella piana sabbiosa aggrovigliandosi su sé stesso.
I primi coloni conoscevano e rispettavano come Dei Vesuvio e Sebeto e narravano delle loro lotte per conquistare la bellissima ninfa Leucopetra, figlia di Nettuno.
Leucopetra era contesa da due giovani, Vesevo e Sebeto che, nonostante i suoi ripetuti rifiuti, non si arresero mai per riuscire a conquistarla. Disperata e avvilita, per sfuggir al loro inseguimento, si gettò in mare e si trasformò in pietra. Allora, Vesevo, infuriato, si trasformò in una montagna che rovesciava fuoco, fino a raggiungere la sua amata ninfa nel mare, mentre Sebeto pianse così tanto, da trasformarsi in un rivolo che si versava in mare.
I coloni che ormai si erano insediati da lungo tempo, si consideravano comunque ospiti delle due immani divinità e le onoravano con rispetto e adorazione.
Lungo gli anni e i secoli, la leggenda fu dimenticata e i nuovi abitanti si impadronirono di parti sempre più grandi dei domini di Vesevo e Sebeto, tagliando cespugli e abbattendo grandi lecci ed olivi, per far posto a case e campi. Per attraversare le acque del Sebeto, vi fu poi, costruito un ponte.
Fin dalla sua costruzione si presentò magnifico e grandioso, con ampie arcate e fortissima pendenza delle rampe e nell’incisione di Alessandro Baratta, il ponte fa la sua comparsa accanto ad un ampio edificio prospiciente il mare, poi, meglio riconosciuto come il palazzo della Cavallerizza del Re, completando la veduta in un rapporto dialettico col territorio, costituendosi sempre più uno dei principali ingressi alla città e, inversamente la principale occasione di spinta dell’organismo urbano verso il territorio vesuviano del Miglio d’Oro.
Venne però il giorno in cui gli uomini divennero capaci di costruire fortezze e armi sempre più potenti. Se prima uomini impauriti e senza forza assistevano alle battaglie degli Dei, ora essi avevano arruolato il fiume nel proprio esercito: il suo compito era fermare chiunque avesse voluto assalire la città.
Sulle sue rive si svolsero innumerevoli battaglie e spesso le sue acque si tinsero in rosso e il ponte della Maddalena eretto per superare le sue acque, divenne il ponte degli impiccati e dei decapitati. Per giorni e giorni il ponte fu la casa del boia e il fiume trasportava in mare corpi senza vita.
Degli antichi Dei si perse anche il nome e il Duca Vigliena ribattezzò quella terra col suo nome.
Sebeto conobbe ancora il fuoco, il fuoco degli uomini, il fuoco del loro odio, che bruciava ogni giorno e non tollerava altro Dio che la sua forza. Non più verdi alberi chiomati si offrivano alla vista dei naviganti, ma geometrici tronchi sormontati da fogliame nero, denso, impenetrabile: le ciminiere si affollavano una dopo l’altra lungo la costa. Una linea ferrata percorsa da locomotive traversava la boscaglia costiera dividendo per sempre il mare dalle fertili terre dell’interno.
Sebeto era ormai un fiume domestico chiuso da argini e coperto da quel ponte che lo aveva umiliato e ridotto ad un rigagnolo; i fianchi del Vesuvio venivano demoliti per cavarne pietra, lastricare strade e ornare ricchi palazzi.