Ho conosciuto Gholam Najafi l’anno scorso in università, ma ancora non avevo capito bene il suo nome. Sapevo solo che fosse afghano, con quei tratti somatici particolari che non avevo mai visto prima. Lo incontravo tra un corso e un altro, contraddistinto da un sorriso e un’aria ingenua. Un giorno mi ci sono soffermata a parlare, e ho scoperto una persona che ha vissuto di tutto, coraggiosa sin dall’infanzia, intelligente, ambiziosa, ma soprattutto umile. Quell’umiltà che gli permette di nascondere le sofferenze, di sussurrarle per non far sentire agli altri che le ha vissute lui, ma nello stesso tempo di far conoscere la sua storia perché c’è da imparare. Una dignità di chi è caduto a terra ma è stato in grado di rialzarsi molte volte, in silenzio e con determinazione.
Questo è Gholam, questa la sua storia e il suo ritorno al Paese natale…
Sono tornato nel mio Paese nel 2012, dopo dodici anni di assenza. Ho visto un altro Afghanistan. Ci sono delle città orribili, altre che si stanno rinnovando però viene sempre tutto distrutto purtroppo, a causa della guerra. Molti tradizionalisti non amano i rinnovamenti. Se avrai modo di andare a Kabul potrai vedere tutto da vicino… Kandahar è rimasta sempre uguale, a Herat stanno costruendo i palazzi sullo stile architettonico di quelli iraniani. L’agricoltura è cambiata: si fa fatica a trovare qualcuno che lavori la terra o allevi il bestiame, perché molti preferiscono studiare. La gente si trasferisce nelle città, come Herat, Balkh (attuale Mazar-e Sharif) e Ghazni. La mentalità dei giovani che studiano è più aperta… Tutti hanno internet, due o tre telefoni, parlano tra loro, hanno amici di altre etnie o religioni…
Com’era la tua vita passata?
Ho iniziato a lavorare a 4 anni, facevo il contadino e il pastore per dare una mano a mio padre che era vecchio (la speranza di vita si riduceva notevolmente dopo i 60 anni). Sognavo di diventare un insegnante, mi piaceva studiare… Fino a 10 anni studiavo pochi mesi e poi dimenticavo tutto mentre lavoravo, così mi toccava ricominciare daccapo.
Com’era strutturato il sistema scolastico?
In quegli anni si studiavano tre libri: uno propedeutico alla lettura del Corano, uno di media difficoltà e uno di Hafiz (poesia classica, ndr), senza capirne il significato, perché è tutto arabo, è tutta poesia… Cosa vuoi capire a 10 anni? E questa scuola coranica era l’unica che si poteva frequentare, non esisteva un’altra scuola statale. I maestri erano gli sheykh, molto violenti… Ti picchiavano se non studiavi. Poi, finita la scuola coranica, potevi studiare la Scienza religiosa, ma di solito ci andava solo chi era ricco.
Quindi comunque gli unici studi possibili erano di carattere religioso. E oggi?
Oggi ad esempio a Herat sono state costruite università, ci sono le scuole statali. Gli alunni studiano più tranquillamente perché gli insegnanti sono meno severi.
Quali sono i rapporti tra uomini e donne?
In strada non possono avere contatti fisici, neanche tenersi per mano, neanche se sono sposati. Altrimenti rischiano la prigione, o che vengano loro tagliate le mani. Nelle università sono separati, nella moschea sono separati. In famiglia non c’è una comunicazione. I maschi mangiano in una stanza e le femmine in un’altra.
E come si conoscono?
I matrimoni sono combinati, ci si conosce attraverso i genitori, che vanno per le case e “contrattano”, senza che il figlio sappia chi andrà a sposare. E’ una vera e propria compravendita. Anche questo è bruttissimo, perché si tratta della vita di una persona! Non c’è l’amore! E poi, solo il padre di un figlio maschio può andare in giro a cercare la futura moglie; chi ha una figlia femmina deve solo aspettare che qualcuno chieda la sua mano, altrimenti rimane nubile.
Ma i giovani non si possono parlare attraverso internet?
Adesso c’è Facebook, però questa non esperienza di conoscenza dell’altro sesso nella vita reale porta alla paura. Chi mi dice che è vero chi mi si presenta dietro lo schermo? E poi, anche decidendo di superare questa incognita e iniziando a frequentare di nascosto l’altra persona, si rischia che i genitori non vogliano più avere a che fare con te, in quanto non sono stati loro a scegliere “per il tuo bene”.
C’è qualche relazione tra Afghanistan e Italia?
A Herat l’aeroporto è stato costruito dagli italiani. E’ bellissimo ma è tenuto male, perché mancano i soldi per risistemarlo.
Come sei arrivato in Italia?
A dieci anni, nel 2000, sono scappato dal mio Paese perché mio padre è stato ucciso, ma non solo dai talebani: c’era la guerra civile. Non potevo più stare là, perché avrebbero ucciso anche me. Ho preso mio fratello più piccolo, che ora vive anche lui in Europa, e siamo andati da Ghazni in un’altra città. Non avevamo neanche i soldi e quindi abbiamo trovato un piccolo ristorante in cui potevamo lavorare, mangiare, guadagnare qualcosa per poi viaggiare. Poi lì abbiamo incontrato una famiglia che ci ha portato in Pakistan, dove siamo rimasti quattro giorni. Tramite contrabbandieri, clandestinamente, ci siamo diretti verso l’Iran: di notte attraversavamo montagne, deserti, abbiamo fatto viaggi veramente terribili (c’erano tantissime migrazioni dall’Afghanistan al Pakistan e dal Pakistan verso l’Iran). In Iran i poliziotti erano molto violenti, siamo stati in prigione per quattro giorni, arrivavano sempre altri galeotti ed eravamo anche in mille persone in questa prigione nel deserto. Ci facevano rotolare sulla sabbia e ci bastonavano. Una prima volta ci hanno rimandati in Afghanistan a Nimruz (tra Iran e Afghanistan). Al secondo tentativo sono passato in Iran, ancora una volta grazie alla famiglia incontrata in Afghanistan. Lavorando in Iran, ho potuto restituire i soldi a queste persone generose. Lavoravo di giorno come operaio e poi muratore e studiavo il Corano la sera. Però non avevo i documenti, non potevo frequentare una scuola (tranne che quella coranica, per cui non serviva l’iscrizione), aprire un conto in banca… Lavoravo sempre clandestinamente. Ma non c’era futuro in Iran… Dovevo venire in Europa.
Come ti trovi in Italia?
Veramente bene, mi sembra il paradiso. Sono stato adottato da una famiglia italiana.
Ti fa male ricordare?
Mi fa male ma bisogna far conoscere queste storie. Possiamo imparare soltanto dal passato.
Chi hai lasciato in Afghanistan?
Della mia famiglia è rimasta mia mamma insieme al fratello più piccolo.
E vostra mamma vi ha lasciato partire a quel tempo?
Lei non ne sapeva niente, ho fatto tutto di nascosto, altrimenti ci avrebbe costretto a restare. Io sapevo quale fosse la situazione, sapevo a cosa andavo incontro. La guerra civile stava finendo per la paura dei talebani… Erano violenti, venivano a casa, mio padre lo portavano in guerra con la forza, non come volontario. In inverno la neve raggiungeva i 4-5 metri e lui doveva andare in montagna, c’era gente che moriva di fame, di freddo, non solo come vittima di guerra. L’Afghanistan è un territorio per il 70% montuoso. I mezzi di comunicazione non c’erano, i dati anagrafici ancora oggi non ci sono e con mia madre non ho avuto più alcun contatto. Non ho neanche una sua foto, mi manca… Anche volendo portare qualcosa come ricordo, in Iran ti spogliavano e ti sottraevano tutto e lo buttavano via. Lo stesso in Pakistan.
Quando sei tornato, hai rivisto la tua famiglia?
Ero curioso, sono andato a cercarla ovviamente. Ho contattato l’ambasciata italiana a Kabul, abbiamo pagato anche molti soldi per farla cercare, ma non l’abbiamo trovata… La tomba di mio padre viene sempre distrutta e mio fratello, che torna in Afghanistan più spesso di me, deve sempre risistemarla.
Qual è il tuo sogno? Vuoi tornarci altre volte?
Mi piacerebbe molto, soprattutto per insegnare ai giovani e agli anziani. Ce la metterò tutta per cambiare il sistema scolastico. Ho imparato molto dalla storia e dalla cultura italiana e occidentale. Vorrei unire l’Afghanistan tra le varie etnie, bisogna che dialoghino tra loro. Questa è l’unica soluzione per l’Afghanistan. Bisogna conoscere le lingue degli altri o parlare una lingua comune per capirsi. Vorrei anche creare un gemellaggio tra l’università di Herat e una italiana.
Chi conosce la tua storia?
Ho avuto la fortuna di conoscere, durante gli ultimi due anni di scuola superiore in Italia, una professoressa particolarmente disponibile che mi ha aiutato ad aprire la mente e a mettere giù qualche riga sulla mia vita e sui miei sentimenti. Non sono molto bravo a scrivere in italiano ma ho tanto da raccontare. Io parlavo e lei scriveva per me, e questo era da sempre il mio sogno. “Inospitale terra promessa” è il titolo del mio primo libro, che ho scritto insieme ad altri iraniani.
Sta uscendo un secondo libro interamente dedicato alla mia vita, “Un pastore dell’Asia viaggia in Europa”: un semplice pastore quale ero io, può cambiare le cose? Possono avere voce in capitolo, le sue idee?
Se sono portate avanti in questo modo nobile, io credo proprio di sì. E te lo auguriamo tutti, Gholam… Grazie.