A Napoli, il calcio è “il pallone”.
“Il pallone” è un culto, un’arte, un sentimento, all’interno del quale giacciono e rimbalzano emozioni e motivazioni, passione e lacrime, di sudore e rabbia, di sospiri e rinunce, di conquiste a forma di dribbling e palleggi.
Lacrime che raccontano una favola, mai scritta, ma capace di scandagliare una caterva di emozioni, tutte le volte che su un paio di gracili ed orgogliose spalle troneggia un “numero 10”.
Il pallone, a Napoli, per Napoli, non è un gioco, né uno sport, ma un modo di essere che imprime in piccoli e scaltri piedi, una diversa e ben più caparbia voglia di vivere che cresce, insieme a quei piedi, custodita all’interno di quei piedi.
Questa è la ragione per la quale, il cammino di quei bambini, delinea percorsi scanditi da passi “diversi”. Più fermi, più decisi, perennemente ed instancabilmente animati dall’inamovibile voglia di “fare gol”.
Non importa se la porta è delimitata da perentori legni bianchi o se timidamente accennata da scarni cartoni: “fare gol” è la motivazione che anima le gesta di quell’aspirante calciatore che giace in una sagoma di “bambino mascherato da adulto” o di “adulto che gioca a fare il bambino”.
Quei bambini non imparano a contemplare il cielo, perché in quell’infinito mantello rilevano i medesimi colori intonati dal cuore, dall’anima e da “quella maglia”.
Giungere a questa conclusione, difatti, vorrebbe dire svilire, annegandolo nella qualunquistica banalità, il profondo e ben più sensibile acume che funge da culla all’interno della quale giace, vigile e famelico, quel sogno comune.
I bambini di Napoli s’innamorano del cielo, perché rappresenta una gigantografia che enfatizza, in maniera infinitamente sconfinata, il colore che anima e simboleggia quel sogno.
Rivolgendo gli occhi al cielo, quei bambini, imparano a non porre limiti a quel sogno che, come per magia, nasce insieme al primo calcio inferto ad un pallone, ma, più saggiamente, pretende di ricevere in dono un paio di forti e voluminose ali, per valicare i limiti dettati dalla ragione.
Quella magia che, idealmente ed indissolubilmente, congiunge Napoli all’Argentina e si trasforma nella spontanea capacità di “far sentire napoletano” un bambino cresciuto in quella terra tanto distante, eppur così vicina, nel cuore, nei colori, soprattutto in quelli che tingono i sogni di quei bambini che, una volta approdati tra le braccia di Partenope, riconoscono in quell’amorevole e protettivo abbraccio, il calore che appartiene solo e soltanto alla “terra madre” e, ben presto, imparano a rilevare negli occhi delle anime che li acclamano a gran voce, “il colore” che contraddistingue “il sogno”.
Da Maradona a Higuain, la storia si ripete, continuando a seguire la strada delineata da quel colore, portatore sano di un sogno che non smette mai di calciare e scalciare emozioni.
Attraverso le gesta di quegli eroi, quel sogno, trova la sua più sublime e commovente espressione.
“Il pallone” è il sole che illumina le giornate, le speranze e i sogni dei bambini. Di tutti i bambini.
Ed è per questo che, a prescindere da quanto sancisce l’età anagrafica, non si deve mai smettere di rivolgere il cuore verso il cielo.
A dispetto di quanto sancisce l’età anagrafica, non si è mai “troppo adulti” o “troppo poco bambini” per privarsi dell’emozione di imprimere un calcio ad un “pallone.”