Il suo nome era Andreas Lubitz: il copilota ventisettenne al comando dell’aereo schiantatosi contro le Alpi francesi, probabilmente ha compiuto un atto volontario, finalizzato al suicidio e inevitabilmente omicidio di tutto l’equipaggio.
A bordo hostess, steward, passeggeri di ogni età e una scolaresca tedesca di 16 alunni da cui proviene l’ultimo sms inviato ad alcuni amici: “Non vedo l’ora di tornare a casa”. Anche l’altro pilota, che fino all’ultimo, tornando dal bagno, ha provato a chiamare Andreas e a sfondare invano la porta blindata antiproiettili della cabina, che tuttavia è possibile aprire solo dall’interno, dal posto in cui si trovava il copilota, secondo le norme in vigore dall’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre.
Chiamato “Amok-pilot” (neologismo creato apposta per lui), il copilota era originario di Montabaur, nell’ovest della Germania, una cittadina di quasi 13mila abitanti. Viveva con i genitori ma poi si era comprato casa a Düsseldorf, proprio dove l’aereo era diretto.
Il suo profilo Facebook, cancellato subito dopo la diffusione dei dati anagrafici, testimoniava la sua passione: il volo, la Lufthansa, e le altre compagnie presso cui lavorava o avrebbe voluto lavorare in futuro. Era stato definito un esempio positivo dalla Federation aviation administration e aveva ricevuto un certificato di eccellenza nel 2013. Con seicentotrenta ore di volo alle spalle, aveva lavorato prima come steward e poi come pilota, e superato tutti i test medici e psicologici che lo avevano reso idoneo a questo mestiere al cento per cento, come confermato da Carsten Spohr, amministratore delegato di Deutsche Lufthansa. Ma, come dichiarato all’Agi da Donatella Marazziti, professore associato di Psichiatria presso l’università di Pisa: “La sola periodicità dei controlli non basta per valutare la salute mentale di un pilota. Servono, infatti, anche controlli di qualità. I suicidi, soprattutto quelli preceduti da omicidi, come si ipotizza per lo schianto dell’aereo in Francia, sono sempre preceduti da campanelli d’allarme. (…) Prima dei 40 anni d’età i piloti vengono sottoposti a controlli ogni anno, dopo aver superato quella soglia d’età ogni sei mesi. Ma è solo nella prima selezione, quando cioè si decide se una persona diventerà o meno pilota, che viene effettuata un’accurata valutazione psicodiagnostica. (…) Ora tocca capire se, in qualche modo, ci sia stato anche un abuso di sostanze che, è risaputo, può portare a gesti estremi”.
L’unica ombra nel profilo di questo ragazzo, infatti, risale al 2008: aveva interrotto la sua formazione a Brema per motivi di salute, perché affetto dalla sindrome di “burn-out”, una forma depressiva che porta lentamente al logoramento o alla decadenza psicofisica, facendo perdere energia, entusiasmo per il proprio lavoro, soddisfazione per i risultati raggiunti, accumulando stress. Per questo la pista più accreditata al momento è quella del suicidio-omicidio volontario. Inoltre, secondo le indiscrezioni di Daily Mail, risaliva a pochi giorni prima dell’incidente la rottura del suo rapporto sentimentale con la fidanzata.
Di lui chi lo conosceva lo descrive come una persona aperta, simpatica e molto ambiziosa; talvolta tranquilla e introversa, ma comunque che non aveva dato nell’ultimo periodo alcuna impressione che facesse intendere che qualcosa non andasse per il verso giusto. L’episodio di depressione, in effetti, risaliva a sette anni fa.
La casa di Düsseldorf è ora sotto perquisizione dalla Procura, che ha dichiarato di aver trovato indizi importanti per la ricostruzione del movente. I familiari del copilota si trovano invece a Marsiglia insieme agli altri parenti delle vittime, sono partiti prima di scoprire che fosse il figlio la causa della tragedia.