Con il passare del tempo, impari a capire cosa significa e comporta nascere e crescere a due passi dal Vesuvio. E in che modo quel groviglio di storie, ipotesi ed incertezze condiziona e contorna le vite che gli germogliano accanto.
Il Vesuvio sottrae ed aggiunge. Apparentemente inerme, visceralmente prolifero.
Il Vesuvio rappresenta il ritratto più fedele dell’anima di questo popolo, la più eloquente e granitica forma alla base dell’essenza della napoletanità.
Dietro quel letargo che si protrae da 71 anni dicono che si celi una tra le più temibili armi di sterminio di massa a disposizione della natura. Chi è nato successivamente a quel 18 marzo 1944, tuttavia, non sa provare timore quando, spalancando le finestre di un nuovo giorno, si ritrova davanti quelle enorme fauci.
Paura no, rispetto e stupore, si. Chi vive adagiato ai piedi di quel rigoglioso vulcano, intreccia con l’egemonia che esercita sulla sua stessa vita un rapporto peculiare, complicato, difficile da spiegare.
La consapevolezza che la minaccia insita in quel colosso esiste ed è reale si assopisce tra una serie di frammiste e dissimili sensazioni. Le storie, più o meno reali confezionate per sfamare il desiderio di curioso sapere che gronda dagli occhi dei più giovani, da parte delle bocche corrugate che hanno vissuto e sono sopravvissute a quel 18 marzo del 1944, avvolgono il Vesuvio in una foschia di fascino, stupore e mistero.
Passeggiare lungo le sue curve, tutte le volte, consegna suggestioni nuove, inesplorate, pregne di quell’eterno connubio armonico e perfetto tra timore ed ammirazione che solo e soltanto quella piramide mozzata all’estremità sa evocare, imprimere, sortire e generare. Per decenni ho sentito le vecchiette del posto denominare la strada in cui sono nata “‘Ncopp’ a lava”, ma solo quando sono cresciuta abbastanza da poter “capire” ho appreso che quell’etichetta sta ad indicare quel tratto di strada in cui, quel 18 marzo del 1944, la lava vomitata durante quell’ultima eruzione, volle fermarsi. Proprio lì.
Esattamente lì dove, adesso, giace casa mia, costeggiata da un muretto in pietra lavica.
Quella stessa lava sopraggiunta 71 anni fa.
Pietra scalfita e corrosa dal tempo che vive accanto allo scorrere e al trascorrere della nostra quotidianità, esattamente come fa “papà Vesuvio”.
Ciò che resta di quell’ultima eruzione sono tanti frammenti di pietra, ricordi e leggende nelle quali è impossibile rilevare devastazione, ma che, piuttosto, raccontano come dalle ceneri sia germogliata una nuova vita.
Il male che dorme nel bene e il bene adagiato sul male: questo è il Vesuvio.
Questa è l’essenza che regna nelle anime di chi lo popola.
Nessuno può stabilire quando il vulcano vorrà svegliarsi ancora. Ciò dovrebbe conferire alla vita che si consuma alle pendici di quella minaccia di distruzione e morte, un senso e un sapore ben più ostico e proibitivo. Invece, quel muretto in pietra lavica che contorna i tuoi passi, diventa il metro più pragmatico da adoperare per testare la tua crescita. E poi quella dei tuoi figli. Ed anche quella dei tuoi nipoti. A patto che rimanga ancora in piedi quell’accordo tacito che vige tra “Re” e “sudditi”.
Questo compromesso, meticolosamente avvolto in un mantello di misterioso fascino, arricchisce la vita ai piedi del Vesuvio di una magia e di un senso, introvabile altrove, irriproducibile in laboratorio, perché non è opera di una pozione chimica, bensì di un’armonica e complice sinergia di sentimenti, quelli più semplici ed essenziali, alla base del legame che intercorre tra uomo e natura.
È per questo che, nonostante la minaccia che gronda da quelle sonnacchiosa fauci, nessuno sente il bisogno di andare via.
Non esistono “ferri del mestiere” adeguati per sradicare talune e sentite radici.