Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento ebbero grande successo anche in Italia i cafè-chantant, locali dove si eseguivano spettacoli di arte varia, durante i quali si poteva mangiare e bere seduti ad un tavolo.
I cafè-chantant nacquero in Francia alla fine del XVIII secolo. In Italia, il primo di questi locali venne aperto nel 1890 a Napoli all’interno della Galleria Umberto I: il famoso Salone Margherita; così chiamato in onore della regina. Da qui dilagarono praticamente in tutta Italia.
Nei cafè-chantant italiani la regola era quella di copiare in tutto e per tutto la moda francese. Anche i menù erano scritti in francese. Lo stesso valeva anche per le sciantose, che erano probabilmente l’attrazione principale di quegli spettacoli. Per assomigliare alle college d’oltralpe, le sciantose napoletane si cambiavano addirittura il nome, si inventavano un passato di amori illustri e per atteggiarsi parlavano con un improbabile accento straniero.
Fu proprio pensando ad una di queste popolane napoletane che nel 1917 il grande Libero Bovio scrisse i versi di una delle più belle canzoni napoletane di tutti i tempi: Reginella.
Nel 1917, in piena guerra, la riflessione sulla sciantosa diviene più amara e realistica. Forse sarà un caso, ma il temperamento passionale e drammatico di Libero Bovio dice la sua, riferisce con tristezza di un incontro: ha rivisto dopo tempo un suo antico amore e ha capito. Il discorso è tutto in controluce, tuttavia è chiarissimo. Vivevano d’amore, in povertà, si alimentavano di baci. Lei regina, Lui re. Poi il “salto di qualità”.
Mentre un tempo la sua vita era molto più semplice, come quando col suo fidanzato mangiava “pane e ciliege” e lei cantava e piangeva per lui
Reginè’, quanno stive cu mico,
nun magnave ca pane e cerase…
Nuje campávamo ‘e vase, e che vase!
Tu cantave e chiagnive pe’ me!
Di quando il cardellino cantava insieme a lei: “Reginella vuole bene al suo re”. Ma ora lui invita il cardellino a scappare dalla gabbia che ha volutamente aperto, a volare via come se n’è volata la sua Reginella, a non continuare a piangere la sua padrona che non c’è più ma a cercarsene un’altra più sincera.
Ma nonostante il successo e l’agiatezza ogni tanto quell’amore riaffiora ancora nella sua mente.
T’aggio vuluto bene a te!
Tu mm’hê vuluto bene a me!
Mo nun ce amammo cchiù,
ma ê vvote tu,
distrattamente,
pienze a me!…
Forse anche il titolo Reginella non fu scelto a caso. “Reginelle” erano dette le prostitute che dopo una retata finivano a Poggioreale, protestando inutilmente contro il sopruso: “Lassàtece, a chi facimmo ‘e male, nuje venninno ‘e ccarne noste!”
Gaetano Lama che la musicò all’inizio della sua carriera, conferisce a quel ricordo dolceamaro, l’andamento morbido e volteggiante di un valzer triste, facendo di questa canzone il suo cavallo di battaglia e un successo mondiale riconosciuto ancora oggi, a quasi cento anni dalla sua nascita.