Gianluca Cimminiello, era un ragazzo di 31 anni, di Secondigliano, aitante, solare, nutriva plurime passioni: la pesca, il canto, le arti marziali, i tatuaggi, divenuti anche il suo mestiere. E la sua, inconsapevole, “condanna a morte”. Gianluca, orfano di padre, è un figlio e un fratello, innamorato della vita e soprattutto della sua famiglia: la mamma, due sorelle e Hermes, un Dogo Argentino che Gianluca aveva adottato prendendosene cura come un figlio.
L’incredibile vicenda che ha generato la sua morte è una storia in cui si miscelano la moda dei tatuaggi e la gelosia fra “colleghi/rivali”, il fanatismo che vige all’ombra del Vesuvio in materia calcistica e Facebook.
Tutti elementi che di per sé si rivelano incapaci di sprigionare una ferocia tale da generare morte, ma che, nel caso di Gianluca, hanno saputo fondersi fino a raggiungere la combinazione giusta per produrre questa triste ed agghiacciante risultante finale.
Tutto scaturisce da una foto con Ezequiel Lavezzi che Gianluca Cimminiello si fa scattare una domenica di fine gennaio davanti all’ingresso degli spogliatoi del San Paolo. Il Pocho è infortunato, non ha giocato e mentre aspetta i compagni accetta di posare con i tifosi. Quella foto Gianluca la posta su Facebook, ma solo dopo averla modificata, togliendo lo sfondo dello stadio e mettendoci quello del suo studio di tatuatore, lo «Zendark Tattoo», sulla circumvallazione esterna, a Casavatore. Del resto, Lavezzi è il testimonial ideale, pieno com’è di tatuaggi.
In quegli anni il Pocho, a Napoli è idolatrato come una divinità e quella foto attira prevedibili consensi. E non solo. Difatti, mentre amici, clienti e frequentatori dello “Zendark tattoo”, commentavano ammirati e compiaciuti l’immagine, un giorno arriva anche il messaggio di un collega tatuatore, Vincenzo Donniacuo, chiamato nel suo giro «Enzo il Cubano», dal nome dello studio che gestisce a Melito. Donniacuo sembra geloso, teme che Gianluca abbia fatto amicizia con Lavezzi, che gli abbia fatto o possa fargli un tatuaggio e diventare il tatuatore di un calciatore fa salire immediatamente le quotazioni tra gli appassionati.
Il Cubano lo sa, tanto è vero che la prima foto che compare sul suo sito e sul suo profilo di Facebook lo ritrae con guanti, macchinetta e inchiostro all’opera su una gamba dell’attaccante Floro Flores. Tra Enzo e Gianluca parte uno botta e risposta di messaggi non troppo amichevoli, finché il primo annuncia che passerà allo studio dell’altro «per parlare da vicino».
Ma non sarà “il cubano” a recarsi da Gianluca: Vincenzo si era rivolto al clan Amato-Pagano per risolvere la questione e così, il 30 Gennaio 2010, allo studio di Gianluca a Casavatore, giungono degli affiliati del clan per “dargli una lezione”: quattro persone armate di coltelli, tra cui il tatuatore ignora che ci sia anche Vincenzo Noviello, cognato del boss Cesare Pagano, vincitore della recente guerra per la spartizione della zona contro i Di Lauro. Entrano nello studio e sostengono di essere lì per conto del collega-concorrente. “Perché ormai la questione è diventata cosa nostra”, dichiarano a Gianluca. Quest’ultimo, diplomato in arti marziali, istruttore di kick boxing, dispone dei muscoli, del coraggio e delle nozioni necessarie per difendersi, suonarle di santa ragione a quei gradassi e riesce, così, a stenderne uno e metterli tutti in fuga.
Gianluca, però, ignora di averle suonate di santa ragione proprio al parente del boss.
Tre giorni dopo, nel tardo pomeriggio del 2 febbraio del 2010, mentre, come di consueto, Gianluca si trova all’interno dello studio con la sua collaboratrice, viene attirato all’esterno da uno sconosciuto che fingendosi un cliente, gli chiede informazioni in merito ad una foto di un tatuaggio, affissa alla vetrina.
Poco prima aveva pubblicato su facebook alcune foto che ritraevano i suoi ultimi lavori, Gianluca è intento sbrigare le ultime incombenze della giornata, prima di abbassare la saracinesca.
Al cospetto di quel cliente, quindi, il tatuatore temporeggia, l’ora è tarda e lo invita a ripassare l’indomani. Ma ciononostante si lascia convincere, dietro le insistenze del giovane: Cimminiello si avvia verso la vetrina. Deve uscire in strada, dove il potenziale cliente si è piazzato. Era quello il tranello per far uscire allo scoperto Gianluca. Non appena fuori dal locale, un secondo giovane gli si para davanti e fa fuoco, due o tre volte. Poi, insieme con il finto cliente, sparisce: dei due si perdono subito le tracce, inghiottiti nell’oscurità della zona e nel traffico dell’ora di punta del rientro.
Non appena Gianluca è uscito in strada il killer ha sparato: l’uomo ha cercato di trovare riparo all’interno del suo locale ma, non appena varcata la soglia d’ingresso s’accascia in una pozza di sangue.
L’omicidio è avvenuto alle 19,50, tutto si è svolto sulla circumvallazione esterna, all’esterno del negozio di tatuaggi, al civico 47. Come sovente accade in queste circostanze, nessuno ha visto o sentito, con l’unica eccezione di chi ha telefonato al 112 per dare l’allarme, protetto dall’anonimato del telefono. Un’indagine per la quale non vi sarà alcuna collaborazione da parte di passanti o abitanti. Nemmeno la commessa del negozio potrà fornire particolari utili perché al momento dell’agguato era nel retrobottega: i killer, prima di entrare in azione, hanno atteso il momento più opportuno. Morì così Gianluca. Quando mancavano due settimane alle nozze di sua sorella Susy e in virtù del fatto che erano orfani, sarebbe spettato proprio a Gianluca l’emozionante onore di accompagnarla all’altare.
Un sogno, un progetto di vita stroncati da una logica folle, assurda, inverosimile.
Il 26 Aprile 2010 viene arrestato dai Carabinieri di Castello di Cisterna, Vincenzo Russo, chiamato “Enzo o’ luongo”: 29 anni, pregiudicato di Melito ritenuto affiliato al clan degli scissionisti, arrestato dai carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna; secondo gli inquirenti è lui l’artefice dell’omicidio di Gianluca, nell’accusa c’è l’aggravante di aver «agito con metodi mafiosi al fine di agevolare le attività dell’associazione camorristica facente capo a Cesare Pagano».
Durante le varie udienze ci sono state anche le dichiarazioni di quattro Collaboratori di Giustizia: Biagio Esposito, Carmine Cerrato, Luca Menna, Luigi Secondo che hanno accusato tutti Vincenzo Russo come esecutore materiale dell’omicidio. In carcere e nel mirino degli inquirenti, difatti, vi è finito soltanto l’esecutore materiale dell’omicidio, mentre tutti gli altri personaggi che hanno non poche responsabilità e concorso di colpa sono rimaste a piede libero, del tutto ignorate dalla giustizia.
A cinque anni dalla sentenza che aveva condannato all’ergastolo Vincenzo Russo, ritenuto l’unico responsabile della morte del giovane tatuatore napoletano, ieri, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza a carico dell’unico imputato. La svolta è giunta per effetto del lavoro condotto dal penalista Giuseppe Ricciulli, sulla scorta di una rilettura di alcune intercettazioni legate alle testimonianze raccolte durante la fase delle indagini. Un caso che si riapre, una ferita che si riapre. Si torna di nuovo in aula, per un nuovo processo d’appello.