Un anno e 4 mesi fa, il quattordicenne Antonio de Jesus Lopez Monje stava uscendo da scuola ad Amozoc, in Messico, in un giorno come tanti. Non sapeva che la sua vita stava per essere messa in pericolo fino ad abbracciare estreme conseguenze.
Un gruppo di sette ragazzini poco più grandi di lui lo avvicina e inizia a pestarlo, prendendolo a calci e pugni fino a lasciarlo massacrato per terra. Il tutto senza un apparente motivo. La corsa all’ospedale è disperata, ma per i medici il destino di Antonio risulta subito chiaro: l’esistenza del ragazzo, in condizioni gravissime, non sarà più la stessa. Il giovane riporta un grosso ematoma alla testa ed ha rimediato un gravissimo danno cerebrale. Subito dopo il ricovero, il 14enne entra in coma.
Il delicatissimo intervento chirurgico riesce, ma i dottori non possono fare miracoli: il ragazzo perde la memoria ed il 60% della vista, ed ha il corpo paralizzato per metà. L’operazione è solo l’inizio del calvario che vedrà Antonio sottoporsi a otto nuovi interventi.
“Per tanto tempo ci siamo aggrappati alla speranza che nostro figlio sarebbe uscito dall’ospedale per tornare a casa. Ma quando ci hanno detto che la sua situazione peggiorava, abbiamo capito che tutto l’impegno dei medici non avrebbe salvato Antonio” dichiara la famiglia, che per questo motivo decide -contro il parere dei dottori- di esaudire il desiderio del ragazzo di “ascoltare il rumore delle onde, sentire il profumo della brezza marina e toccare la sabbia.”
Così il 14enne va a vivere con sua nonna ad Ensenada, cittadina costiera del nord ovest del Messico, e vi rimane per tre mesi. Poi, proprio pochi giorni fa, muore.
Il piccolo Antonio de Jesus Lopez Monje non è sopravvissuto all’efferato attacco. Suo padre Roberto ha asserito: “Per colpa di questa insensata aggressione abbiamo perso la cosa più preziosa”. I sette boia che 16 mesi fa lo picchiarono a morte adesso aspettano di conoscere l’esito del processo nell’ambito del quale dovranno rispondere all’accusa di omicidio.
La tragica vicenda messicana ha portato sotto lo sguardo dell’opinione pubblica globale un problema in ascesa: il bullismo. Questo fenomeno che “vanta” antiche radici, ha iniziato a suscitare l’interesse della comunità scientifica dagli anni ’70 in poi ed oggi è possibile delinearlo -in tutte le sue forme- e tracciare il profilo sia degli aggressori che dei potenziali martiri.
I principi del bullismo sono l’intenzionalità, la persistenza nel tempo e l’asimmetria del rapporto bullo/vittima e la violenza può essere diretta (fisica, verbale, psicologica o “elettronica”) o indiretta (esclusione e calunnie).
Nel corso degli ultimi anni, si è registrato un boom di episodi a metà tra il bullismo fisico e il cyberbullismo (knokout e kickout game, happy slapping) che consistono nell’aggredire un soggetto per riprenderlo ed umiliarlo in rete.
In aumento anche i casi di giovani che decidono di suicidarsi perché tormentati o istigati dal bullo. Si stima infatti che ogni anno dai 15 ai 25 ragazzi decidano di togliersi la vita per non continuare ad essere un bersaglio. In queste situazioni, spesso, il bullismo si fonde con l’omofobia: in molte società sono i giovani omosessuali ad essere vittima dei prepotenti, forti del poco sostegno che questi hanno in famiglia e nella comunità.
Per sradicare il problema, è opportuno lavorare sugli individui problematici: i potenziali bulli sono persone che hanno subito a loro volta abusi o che si lasciano condizionare dai messaggi di violenza trasmessi dai media o dalle persone vicine o che nutrono un forte risentimento e che quindi sfogano il proprio disagio soggiogando i più deboli. E’ invece erroneo, stando alle ricerche in merito, considerare l’aggressore come “bisognoso d’aiuto” (non è raro che un violento venga da una famiglia agiata che gli ha permesso di avere una forte autostima) o etichettare il bullismo come una ragazzata “normale” nelle fasi della crescita: è necessario che venga riconosciuta la gravità del fenomeno.
Perché anche l’indifferenza uccide.