Come prontamente segnalano i mazzolini di mimose tirati a lucido che grondano agli angoli delle strade, i messaggi che si accavallano sui social e finanche Google ricorda, sostituendo il classico logo con un doodle che mostra alcune immagini di donne che svolgono i lavori più disparati: l’astronauta, la chimica, la sportiva. Un’immagine che ben personifica e sintetizza il valore, l’accezione di senso e la valenza ricoperta realmente dalla suddetta ricorrenza.
Un evento dall’elevatissima connotazione politica e sociale, per l’appunto, istituito per ricordare sia le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze cui sono ancora oggetto in molte parti del mondo.
La prima celebrazione si è svolta negli Stati Uniti, organizzata dal Partito socialista americano il 28 febbraio del 1909 e fu una manifestazione in favore del diritto di voto femminile, mentre in alcuni paesi europei, la ricorrenza è stata istituita nel 1911 e in Italia nel 1922.
La connotazione fortemente politica della Giornata della donna, l’isolamento politico della Russia e del movimento comunista e, infine, le vicende della seconda guerra mondiale, contribuirono alla perdita della memoria storica delle reali origini della manifestazione.
Fu così, nel secondo dopoguerra, cominciarono a circolare fantasiose versioni, secondo le quali l’8 marzo avrebbe ricordato la morte di centinaia di operaie nel rogo di una inesistente fabbrica di camicie Cotton o Cottons avvenuto nel 1908 a New York, facendo probabilmente confusione con una tragedia realmente verificatasi in quella città il 25 marzo 1911, l’incendio della fabbrica Triangle, nella quale morirono 146 lavoratori (123 donne e 23 uomini, in gran parte giovani immigrate di origine italiana ed ebraica). Altre versioni citavano la violenta repressione poliziesca di una presunta manifestazione sindacale di operaie tessili tenutasi a New York nel 1857, mentre altre ancora riferivano di scioperi o incidenti avvenuti a Chicago, a Boston o a New York.
Nonostante le ricerche effettuate da diverse femministe tra la fine degli anni ’70 e ’80 abbiano dimostrato l’erroneità di queste ricostruzioni, le stesse sono ancora diffuse sia tra i mass media che nella propaganda delle organizzazioni sindacali ricordando i 25 anni trascorsi dalla prima sessione della Commissione sulla condizione delle Donne, l’ONU proclamò il 1975 “Anno Internazionale delle Donne”. Questo venne seguito, il 15 dicembre 1975, dalla proclamazione del “Decennio delle Nazioni Unite per le donne: equità, sviluppo e pace”.
Pertanto, tante, svariate ed erronee sono le suggestioni, le leggende e le storie che aleggiano intorno a questa data. Analogo destino è disegnato nella motivazione che ha istituito la mimosa quale simbolo ufficiale della ricorrenza.
Per lungo tempo è stato da più fonti riportato che, all’esterno della fabbrica newyorkese in cui divampò il famigerato nel 1908, vi fosse proprio un albero di mimose in fiore. Ragion per cui, si pensò di ergerlo a “simbolo ufficiale della ricorrenza”.
La mimosa, dal profumo intenso e delicato, in apparenza fragile, nasconde, in realtà, una grande forza, attecchendo su qualsiasi terreno, anche in quelli difficili e questa sua caratteristica lo accomuna alla determinazione delle donne nel cercare di raggiungere i loro obiettivi. Il ramo di mimosa, con i suoi delicati pallini gialli, racchiude al suo interno tutte le lotte che le donne hanno affrontato negli anni per giungere ad essere quel che sono oggi. Questa suggestione emotiva, associata al fatto che la mimosa sia l’unico fiore di stagione, hanno consentito ai mille pallini gialli di conquistare il suddetto titolo.
A prescindere dai rituali tutt’altro che confacenti allo status di “donna” in termini di dignità, lungimiranza ed emancipazione, innumerevoli sono le manifestazioni e le celebrazioni che si svolgono, in tutto il mondo, per conferire il più decoroso e pieno tributo a questa ricorrenza.
La prima, grande e significativa manifestazione a favore delle donne è quella avvenuta lo scorso giovedì 5 marzo, a Kabul, in Afghanistan. Un gruppo di uomini ha manifestato indossando dei burqa blu. I manifestanti hanno sfilato lungo le strade di Kabul esibendo cartelli che riportavano scritte, quali: “eguaglianza” e “non dire alle donne cosa indossare, semmai copriti gli occhi”. Il burqa è un abito tradizionale islamico – di solito di colore blu o nero – che copre il corpo della donna dalla testa ai piedi. All’altezza degli occhi spesso c’è una specie di rete che permette alla donna di vedere parzialmente, ma che non ne mostra il volto. Una protesta vibrante che introduce gli innumerevoli rituali che, oggi, si svolgeranno in tutto il mondo.
In Russia è festa nazionale, trascorsa nel cerchio familiare con uno sfarzoso pasto e champagne, oppure facendo visita agli amici. Gli uomini, secondo la tradizione, devono dare il meglio di sé, dedicandosi alle faccende domestiche (lavaggio dei piatti, cucina e cura dei bambini), in modo che le donne possano sentirsi delle regine, godendosi la loro giornata di riposo.
In Ecuador, nel “Parque de las Mujeres”, dietro la Chiesa della Dolorosa, si organizzano iniziative culturali, spettacoli e movimenti ed i ristoranti offrono menù speciali.
In Colombia le donne non ammettono gli uomini ai festeggiamenti, riunendosi nei quartieri per organizzare la “pollada” (vendita di patate, pollo, tamales ecc.); usando i fondi raccolti per rafforzare le attività delle organizzazioni di donne.
In Honduras, invece, si festeggia la donna il 25 gennaio, mentre a New York, il Code Pink Women for Peace organizza una serie di attività che vanno dal 6 all’8 marzo.
In Africa la festa è particolarmente sentita dalle donne in lotta: in Cameroon, ad esempio, le associazioni di donne organizzano dei festeggiamenti che durano tutta la settimana a cavallo dell’8 marzo, con vari eventi e iniziative artistiche e culturali.
Anche lo Zimbabwe festeggia, con qualche manifestazione all’aperto, nonostante i brutti dati dell’l’Unifem (Fondo delle Nazioni Unite per lo Sviluppo della Donna), secondo cui le donne costituiscono il 58% della comunità adulta sieropositiva nell’Africa Sub Sahariana, e lo Zimbabwe ha 780,000 orfani a causa dell’HIV/AIDS.
In Indonesia le donne artiste si incontrano per dibattere, organizzando mostre ed eventi culturali; così come nelle Filippine dove le donne, tra le più istruite dell’Asia, fanno sentire forte la loro voce.
In Vietnam, in cui il sesso femminile costituisce una grande forza lavoro, c’è la Women Union, vero caposaldo della cultura comunista, l’8 marzo si festeggia regalando mazzi di fiori a tutte le donne che portano cose da mangiare anche sul luogo di lavoro per stare tra loro in maniera conviviale.