E’ tradizione: a Capodanno, un giro per i banchi del pesce, si deve fare.
La notte tra il 30 e il 31 dicembre la città ne è piena. Il richiamo più forte proviene senz’altro da Porta Nolana: “’Ngopp’ e Mur’” per l’esattezza, dove, da secoli, si tiene il mercato del pesce più folcloristico del Mondo.
Banchi di ogni tipo, oltre al mare, ci trovi ogni cibo, dalle spezie alla frutta, dalle verdure alla pasta passando per il vino e la birra. Ci passi al centro i banchi si aprono a decine avanti a te e dalla piazza proseguono per tutto il Lavinaio. Certi più che negozi sembran quadri e più che commercianti, certi proprio pittori. Ogni punto è in armonia con l’altro, migliaia di pesci di ogni specie sembra formino un’enorme tela dove un grande pennello, con precisione assoluta, definisce spazi e colori.
Fra i banchi, quasi sempre in prossimità dei vicoli e non a caso, sbucano, di tanto in tanto, banchetti con ogni tipo di tabacco: sigarette internazionali e nazionali dalla dubbia provenienza a prezzi ancora popolari.
Ai lati della strada ognuno dice la sua, i commercianti provano a catturare anche le più pigre attenzioni. Qua urlare è identità, ogni banco racconta una famiglia ed ognuna di queste ha un grido o suo fischio di battaglia. Anche i Taratufi, quando tirano fuori la testolina e spruzzano dalla lingua acqua salata sembrano voler strillare!
La strada è sempre umida e, anche se non piove, bagnata.
Sulle Antiche pietre riflettono decine di luci e centinaia di colori, delicatamente vi sostano poi svariate fragranze, cattivi e seducenti aromi. Al centro del mercato un gruppetto di persone aspetta per mangiare, la pizza fritta qua la mordi da lontano. A metri di distanza vedi salire il fumo denso e bianco della friggitrice che poi sparisce nello scuro del vico nero alle spalle, e non puoi non sentire, il suo profumo: ti ammalia, così come il suono del flauto fa con certi serpenti. La vetrina è completamente appannata, fuori freddo, dentro caldo. Il pizzaiolo cala l’impasto nella pentola, dentro cicoli, ricotta e pomodoro, dopo due minuti la rialza lascia sfogare l’olio e croccante la ripone in un foglio di carta giallo, bollente. Puoi mangiarla.
Da ragazzo, invece, era raro che andassi a Porta Nolana; di questi tempi giravo tra centro e periferia con i miei amici. Usavamo la macchina, a volte, quando non c’era, senza patente. L’unico Bus che girava di Notte era il 437, ne passava uno ogni ora, -se ti andava bene- le teste erano quelle che erano e per divertirci seminavamo il panico tra pescivendoli. Il mio amico Salvatore era scatenato e tutti lo seguivano a ruota, durante le feste puntavamo a turno le pescherie e mettevamo tutto il nostro ingegno in giochi che qualche volta per poco, quasi, ci facevano ammazzare.
Talvolta, scelta la vittima, sostavamo a qualche decina di metri dallo sfortunato; scendevamo tutti dall’auto, tranne uno che aspettava dentro con il motore acceso, ci avvicinavamo al banco muti e senza fare rumore e quando i Pescivendoli si distraevano e la via era libera, con velocità fulminea, rovesciavamo i bidoni dell’acqua che loro preparavano per i frutti di mare e per bagnare il pesce. Un rumore sordo, il panico “acqu’ asott e acqu’ acopp” e poi tutti di corsa verso l’auto che ci aspettava ridendo a crepapelle! Chi era veloce, io lo ero, se la cavava anche se in casi come questo, più di un coltellaccio lanciato nel vuoto e qualche urla del malcapitato Pescivendolo non succedeva. “Ma guard’ sti figl’ ‘e …l!”
Molte volte ho dovuto persuadere alcuni tra i più scapestrati di noi, certi avrebbero volentieri rovesciato addirittura le vasche con i capitoni! E, probabilmente, qualche volta ci sono pure riusciti. Ma non sempre è andata benissimo. Dopo una notte in giro tornavamo la mattina a casa e tempo qualche ora, mai prima dell’una, eravamo tutti di nuovo per strada. Le vie erano zeppe di bancarelle dei fuochi, potevi trovarne anche tre sulla stessa via e tutti vendevano tutto. Mangiavamo la pizza con le scarole per pranzo –ancora oggi è tradizione – ed intrallazzavamo un bidone per il fuoco per la notte. Con i miei amici non organizzavamo mai nulla per capodanno, eravamo dei “randagi” poche regole e non tutti ci accettavano (non a torto). Dopo il cenone con le nostre famiglie che per l’occasione si allargavano a dismisura, ci riunivamo per strada in Piazza o fuori al Bar, come tutto dell’anno del resto. Eravamo fratelli e, ognuno per la nostra strada, lo siamo ancora.
Una sola volta facemmo il pensiero di andare al Veglione (avevo quindici anni) ma, il pomeriggio, io, Salvatore, Amedeo e i miei cugini, Luca e Alessandro, mentre eravamo vicino ad una bancarella a contrattare per dei fischi e qualche modesta bomba ci ritrovammo nel bel mezzo di una sparatoria, una di quelle vere.
In pratica, un uomo che aveva subito un torto qualche giorno prima, pensò bene di farsi giustizia da solo ed il caso volle che il suo obiettivo si trovasse a dieci centimetri da me e Salvatore: noi due eravamo inseparabili.
Quel giorno, il tempo era pessimo, c’era poca luce e verso le 16.30 era quasi del tutto scuro. Alcuni movimenti anomali ci diedero la percezione che stava per succedere qualcosa; dietro di me un signore con impermeabile chiaro lungo sotto le ginocchia, mai visto prima, portava con sé un ombrello eppure quel giorno proprio non pioveva. Una volta vicino alla sua vittima lo aprì ad altezza uomo quasi volesse avere uno scudo ed iniziò a sparare alla cieca, senza guardare.
Sentiti gli spari, io e Totore iniziammo a correre, Amedeo s’infilò dentro la bancarella, i miei cugini scapparono nelle Palazzine. Qualche metro più avanti, mentre correvamo a 100 km/h la gamba del mio amico venne meno ed iniziò a zoppicare “m’ ha pigliat’, Giusè” disse.
Venne accidentalmente colpito ad una gamba, il proiettile, fortunatamente, uscì subito e non toccò nessun ossa o tendine, a spalla lo portai a casa ed una volta fuori entrammo abbracciati sbattendo la porta al muro, la casa era su due livelli e appena dentro sulla sinistra c’era un mezzo muro che ti copriva fino ai fianchi. La mamma e le sorelle, in quel momento, si trovavano tutte vicino alla tavola che tagliavano la testa ai capitoni e come sempre quando ci vedevano erano allegre e pronte a farsi una risata, ma quel giorno non fu così.
Il loro bel colorito rosso Natale, di colpo, diventò bianco.
“Chestat?!” disse la mamma, Totore sotto shock “Mamma nun t’ preoccupà nun è succies’ nient’, m’hann’ sparate’! “. Nient’, le grida si sentivano a chilometri. Ricordo, subito dopo, il rumore forte di qualcosa che dalle scale rimbalzava come un flipper da parete a parete; era Rafele, il padre di Totore che dormiva al piano di sopra e che dalle urla aveva capito che le cose non stavano molto bene, poi tutto il vico capì, dopo di lui.
Ci fottemmo dalla paura ma non eravamo soli. Non lo eravamo mai.
Totore, quella volta, se la cavò con qualche giorno di riposo e la nostra festa di Capodanno andò a farsi benedire, ma andò bene e la vita avanti. Lo scorso 31 dicembre, verso le 15, come al solito ero per strada non lontano da casa questa volta, a qualche metro da me una pescheria e da lontano osservavo un giovane al banco che vedeva scorrere le ultime ore di un’interminabile giornata, lavorava dal giorno prima, una maratona. Avevo appena salutato degli amici, si parlava del Cenone, mi lamentavo avevo mangiato troppo durante le feste, ma quello non era solo un mio problema.
Da lontano con la coda dell’occhio vidi sbucare dal Vico, mani in tasca, Giacca a vento Grigio fucile, Pantalone nero e maglia scura, capelli squadrati e corti nei lati tenuti su da un pizzico di gel, occhi azzurri a chiazze verdi e un sorriso coinvolgente; straripante: Butticell’ anni undici. Nel quartiere tra gli abitanti è una star, lo conoscono tutti, anche io alla sua età conoscevo tanta gente, ma lui ha qualcosa che non so spiegare. Gioca a bigliardo con uomini trent’anni più grandi di lui e vince. Gira su una vecchia bici rosa, anche se ne ha una nera nuova. M’incuriosisce da sempre e spesso chiedo di lui agli amici; il calcio, la scuola, le passioni e le risposte sono sempre uguali, un cenno di rispetto “è fort’”, non c’è dubbio questo bambino le cose le sa fare. Nel frattempo, con il suo lento fare s’avvicina e mi dà un bacio, l’ho visto nascere, e mi chiede senza mai tirare fuori la mano dalla tasca “Amò, ma nu poc e pesce buon aro laggià piglià?” – Amo è un intercalare affettuoso per rivolgersi gli amici, quelli simpatici s’intende – . Mi lascia di sasso. “Butticè ma tu lo devi comprare?” mi guarda con tutta la calma del Mondo “ è logico amò”. Gli dico di provare più avanti, al banco sulla strada, dove c’è quel ragazzo che stanco di faticà vorrebbe tornare a casa e gli chiedo “ ma arò e pigliat’ e sord?” mi sorride un ghigno e “e sord so e mammà, ma questo qua’ fuori le ostriche buone le tiene???” .
Dicono dei bambini che posseggono una meravigliosa capacità di riuscire ad essere ciò che vogliono, quando lo vogliono. A Capodanno Butticell’ ha deciso, vuole essere Bomba a man’ e provate a fermarlo. Nel frattempo, il sole cala e la gente comincia a rincasare, le voci, le luci e i suoni tutti insieme poco a poco sembrano arretrare, proprio come una grande onda che dopo aver travolto tutto, stanca, torna in mare.
Giuseppe Divaio