Una protesta forte, come solo il cuore delle donne sa esserlo, sentita, come solo i problemi che straziano il cuore sanno esserlo e dignitosamente rabbiosa, come solo l’anima delle “donne coraggio” della Terra dei fuochi sa esserlo.
Vestite di nero, colore del lutto, con bambolotti tra le braccia: questo l’urlo di protesta inscenato da dodici giovani donne, in largo Berlinguer, a Napoli, per dire «no» alla costruzione di un nuovo impianto di termovalorizzazione.
Una manifestazione singolare, al cospetto della quale era impossibile replicare con l’indifferenza. E che, pertanto, ha prevedibilmente richiamato l’attenzione di centinaia di passanti, mentre venivano diffusi volantini sui quali si leggeva che il termovalorizzatore non dovrà essere «realizzato né domani né mai. Né a Giugliano né altrove».
Per comprendere quanto sia spinosa e controversa la questione “esposta in piazza”, basta soffermarsi sul termine “termovalorizzatore” che, seppur di uso comune, è talvolta criticato in quanto sarebbe fuorviante. Infatti, secondo le più moderne teorie sulla corretta gestione dei rifiuti gli unici modi per “valorizzare” un rifiuto sono prima di tutto il riuso e poi il riciclo, mentre l’incenerimento – anche se con recupero energetico – costituisce mero smaltimento ed è dunque da preferirsi alla semplice discarica di rifiuti indifferenziati.
È soprattutto interessante sottolineare che il termine “termovalorizzatore” non viene mai utilizzato nelle normative europea e italiana di riferimento, nelle quali si parla solo di “inceneritori”.
Controversa e tutt’altro che definita è la relazione tra presenza di termovalorizzatori e l’incidenza di patologie tumorali nella popolazione giacente nei paraggi degli stessi.
Probabilmente, una protesta forte, sentita e dignitosamente rabbiosa, affonda le sue radici in sane e legittime motivazioni.