È recentemente avvenuto in Brasile, avverrà anche in Qatar: la povertà, lo sfruttamento e tutto ciò che accade “a luci spente” resterà tale. Su schermi giganti e negli occhi dei tifosi e di coloro che seguiranno i Mondiali di calcio, rotoleranno palloni, sventoleranno striscioni e bandiere, brilleranno effetti speciali.
Ma dietro canzoni e tamburi, ci sono altri rumori, molto più assordanti, per chi ne voglia tendere l’orecchio.
Migliaia di persone, provenienti da vari Paesi del mondo, sono costrette a lavorare per minimo 12 ore ogni giorno, senza acqua, nè cibo, nè pagamento adeguato. D’estate anche a 50 gradi, col sole del deserto.
Non siamo i primi a denunciarlo: lo ha già fatto Amnesty international, lo hanno fatto altri giornali, altri enti… Eppure, quanti di voi ne erano a conoscenza fino ad ora?
Si tratta di 1.4 milioni di impiegati, da Nepal, India, Pakistan, Bangladesh, Iran, Egitto, Sri Lanka, Filippine… Non sono solo numeri. Non facciamoci confondere dalla vastità del problema.
In uno dei mega-cantieri muore un lavoratore ogni due giorni. La direttrice della compagnia statunitense CH2M Hill vive tranquillamente in una cittadina del Colorado e sostiene che la colpa sia delle leggi del Qatar.
In effetti in questo Stato vige il sistema della Kafala, una sorta di “sponsorizzazione” tra datore di lavoro e impiegato: il primo è responsabile del visto, dello status sociale del migrante e quindi può in qualsiasi momento sequestrare il passaporto del secondo o decidere per lui di non farlo uscire dal Paese. Qual è allora il confine tra rispetto delle leggi del governo ospitante e lavoro forzato, guidato comodamente dall’estero? L’impiegato diventa più una pedina nelle mani del direttore, non può rivolgersi ad alcun sindacato e guadagna talmente poco da non potersi permettere un biglietto aereo per fare ritorno a casa. Inoltre, è lasciato abitare in strutture da pochi metri quadrati insieme a 9 coinquilini. Spesso le palazzine raggiungono i 100 lavoratori con soli 3 bagni in comune.
Tuttavia, basterebbe il buon senso del datore di lavoro, una qualità così scontata eppure così irrintracciabile ai nostri tempi. Basterebbe una telefonata per restituire i passaporti agli immigrati.
Amnesty international aveva già inviato un rapporto, a seguito del quale il governo di Doha aveva progettato delle riforme per porre fine a questo sfruttamento. Il responsabile Amnesty dei diritti di migranti e rifugiati, Sherif Elsayed-Ali, ha affermato: <<Nonostante le ripetute promesse in vista della Coppa del Mondo, il governo del Qatar non ha ancora attuato nessuno dei cambiamenti più importanti, come l’abolizione del permesso di uscita e la revisione del sistema di sponsorizzazione abusiva. Il tempo si sta esaurendo velocemente. Sono passati quattro anni da quando il Qatar ha vinto la gara per ospitare la Coppa del Mondo e finora la risposta sugli abusi non è andata oltre le promesse e i piani di azione. Occorre un intervento urgente per evitare che il Mondiale ponga le basi sul lavoro forzato e lo sfruttamento>>.
Anche il Comitato esecutivo Fifa aveva fatto pressioni affinché si creasse un’autorità indipendente, a guardia dei programmi di riforma in Qatar.
Ma la schiavitù è ancora in corso, ancora oggi, ancora adesso, mentre leggi questo articolo.
Oltre a denunciare, facciamo qualcosa: esiste una petizione che è possibile firmare a questo link: Contro lo sfruttamento in Qatar .