La storia e la vita di Carmine Schiavone nascono a Casal di Principe, in provincia di Caserta, il 20 luglio 1943.
Titolo di studio: diploma in ragioneria, figlio di un commerciante di agrumi e di una casalinga, padre e marito e soprattutto pentito e collaboratore di giustizia, ma prima amministratore e consigliere del clan dei casalesi.
La prima condanna giunge nel ’64 «legata a cose di ragazzi un po’ esuberanti che non pensavano a cosa potesse essere il domani», arrestato nel ’72 per tentata estorsione, in carcere allarga la cerchia di amici, affezionandosi in particolare a Mario Iovine. Assolto e scarcerato dopo pochi mesi, apre centri Aima di raccolta prodotti ortofrutticoli per la trasformazione conserviera e si mette in affari con Iovine «a noi interessava il business, che all’epoca erano le bische clandestine, le bollette false, e le truffe insomma».
Arrestato nel ’77 per rapina, resta in carcere sei anni. Mentre i camorristi si schieravano chi dalla parte di Cutolo chi dalla parte della Nuova Famiglia, «noi facemmo Cosa Nostra casalese, e fummo battezzati io e mio cugino Sandokan. Ciò avvenne nel 1981. Io ero già mafioso dal 1974, ma non ero mai stato affiliato formalmente».
Insieme agli altri gruppi casertani si schierano contro i cutoliani: «Fino al 1983 ci fu proprio una guerra totale» alle Iene ha, infatti, raccontato che dovevano ammazzare almeno sei-sette cutoliani al giorno. «Comunque, già vedevo come sarebbero andate le cose alla lunga: c’era gente che teneva la madre che faceva la vita a Milano, oppure gente che faceva lo sfruttamento della prostituzione o che spacciava droga. Dove si poteva arrivare con queste persone? Si sentivano forti perché erano diventati una massa, ma non c’era un credo ideologico, non c’era il proposito fermo dell’uomo d’onore, era una cosa sbandata».
Nel bel mezzo del conflitto, Carmine crea con Iovine il «sistema dei consorzi»: «Io contrattavo con le grosse imprese, con gli appalti, i subappalti. Tutte le attività che passavano attraverso la provincia di Caserta fino a Latina erano controllate dal clan, poi c’erano gli appoggi, a Firenze, a Bologna, a Reggio Emilia, a Roma». Si occupa anche della fornitura di droga, cocaina venduta ai grossisti di Napoli, Roma, Fondi, Milano, con assoluto divieto di spacciarla nel Casertano.
«La politica che facevamo era: il popolo a noi ci deve amare per amore e non per terrore. Noi non dovevamo fare gli errori che Cutolo e altri avevano fatto. Si doveva capire che noi non portavamo droga a Casale, che noi non facevamo furti, non facevamo rapine. Fino al 1989-90 se qualcuno si è permesso di fare rapine è stato ammazzato, oppure è sparito». Arrestato nell’83, in primo grado viene condannato a 18 anni per associazione mafiosa, ridotti in appello a 5. «All’epoca avevo sette figli: cinque maschi e due femmine. E a un certo punto incominciai a dirmi: “Ho i figli sposati, sono nonno, invecchio, può continuare la vita in questa maniera?”». Nel ’90 apre un’impresa di calcestruzzo, ma incomincia a litigare coi cugini, per primo con Francesco Bidognetti: «Io gli imputavo che loro avevano inondato l’Agro aversano di fusti tossici e nucleari».
L’idea in origine era sua, ma Bidognetti lo aveva scoraggiato per poi farlo di nascosto da lui «incassavano 600 milioni al mese e alla cassa ne davano 100 al mese». Il 6 luglio 1991 viene arrestato: nell’impresa di calcestruzzo sono state trovate delle armi che in realtà, dice Carmine, lui aveva dato a suo cugino «Walterino». Simulando di essere cardiopatico, il 26 luglio ottiene gli arresti domiciliari, ma il 21 novembre, diventata definitiva la condanna a 5 anni per associazione mafiosa e di tutta risposta, diventa latitante. Sentendosi lo scaricabarile del clan per la faccenda delle armi, se la prende con Sandokan, rinfacciandogli di fare la cresta sulla cassa del clan: «Abbiamo fatto una guerra con i cutoliani, una con i Nuvoletta, una con i Bardellino, una coi De Falco, l’ultima la dobbiamo fare io e te?». Oltre ai risentimenti personali c’è che dal ’90 i Casalesi hanno cominciato a spacciare anche a Casale e hanno smesso di mantenere i familiari dei detenuti, finché, nel ’91, viene ammazzato perfino un bambino di dieci anni.
«Quella è un’altra goccia che fece traboccare il vaso. Mio cugino stava in carcere e un altro mio cugino prese la reggenza militare, cominciarono a sparare e dove andava andava. Mi accorgo che i fatti non quadrano più, erano diventati delle bestie. Mi fanno arrestare a Maglie».
È il luglio ’92, in Sicilia sono stati ammazzati il giudice Falcone e Borsellino, e Carmine si prende il carcere duro «pensai: i siciliani fanno i guai per i loro intrallazzi e noi ne paghiamo le conseguenze». In carcere viene esautorato, con la scusa ufficiale che avendo l’amante non può più fare il capo. «Mia figlia Rosaria era l’unica di cui mi fidavo, a un certo punto le dissi: “Questi mi faranno pentire, questi non si rendono conto che mi faranno pentire, perché stanno perdendo tutto ciò che significa essere uomo, con questa gente non c’è futuro più per nessuno”». «Stetti quattro o cinque giorni sul letto con la testa sul cuscino. Ho analizzato tutta la mia vita, tutta la vita loro come un proiettore che proietta un film, e dissi: “Sono bestie, io mi sono trovato in mezzo a delle bestie e sono diventato più bestia di loro. Quanti altri morti innocenti ci dovranno essere! Quanta altra gente dovrà piangere i figli drogati!”». Qualche giorno dopo riceve la visita della figlia Rosaria, e le dice testuali parole: «Tu gli vuoi bene al tuo fidanzato? Se gli vuoi bene sposati, perché io questa volta sparo la bomba atomica. Questa volta muore Sansone con tutti i filistei». A maggio 1993 si pente, facendo sequestrare beni del clan per 2.500 miliardi. Dalle sue dichiarazioni nasce il processo “Spartacus”.
Il 7 ottobre 1996 è stato sentito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti per spiegare come è stata avvelenata la Campania. Tutto è partito dagli appalti per fare le superstrade. «Nei capitolati emanati dall’amministrazione di lavori pubblici si prevedeva che sotto la strada, per garantire la tenuta, dovesse esservi sabbia insieme ad altri detriti speciali. Tuttavia, per costruire in fretta le strade, si usava del terreno, e in particolare uno strano che possiamo definire paesano, non cretoso, che era più friabile e veniva mescolato con un po’ di sabbia. In questo modo si realizzava il rilevato e si risparmiava sull’importo che veniva da Roma. Tra l’altro vi era una situazione “satellitare” di subappalti, una sorta di meccanismi di scatole cinesi, per cui le imprese lavorano in quel modo. A tal fine venivano realizzati questi pozzi, queste vasche, questi scavi, in cui si arrivava sistematicamente fino al punto in cui usciva l’acqua». Scava scava, nell’88, nella zona dei Regi Lagni, il terreno eroso fino a una profondità di 15-20 metri, ammonta a 240 ettari. «All’epoca mi trovavo a Otranto e vennero da me l’avvocato Pino Borsa e Pasquale Pirolo, i quali mi fecero una proposta relativa allo scarico di fusti tossici e quant’altro». Negli scavi dove è stata portata via la terra adesso si possono seppellire i rifiuti. «Andai a Casal di Principe dove c’erano Mario Iovine e mio cugino; parlammo tutti e tre del fatto che avevo ricevuto una proposta relativa allo scarico di fusti e casse che venivano da fuori. Mi si rispose che sarebbe stato un buon business per fare entrare nelle casse del clan soldi da investire, ma il paese sarebbe stato avvelenato, perché i rifiuti avrebbero inquinato le falde acquifere: infatti molti degli scavi erano limitrofi alle falde acquifere (…) In seguito seppi che era già iniziato di nascosto il traffico dei rifiuti, d’accordo con l’avvocato Chianese e con altre persone. L’avevano iniziato mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti, insieme ad un certo Cerci Gaetano, che aveva già intrattenuto rapporti con dei signori di Arezzo, Firenze, Milano e Genova. Il mercato dei rifiuti in Italia è uno solo e veniva gestito da poche persone. Poi i clan si sono intromessi e hanno detto (come per le strade): noi vi facciamo passare i camion e non ve li distruggiamo, ma ci dovete dare tanto. Poiché era più conveniente dare ai clan che lavorare di nascosto… ma per fare ciò serviva gente che entrasse in queste associazioni culturali, quindi gente intelligente, che studiava…». Nella cassa comune dei casalesi dal ’90 al ’92 sono finiti 2-3 miliardi. «Ma c’è qualche latitante che ha ancora le valige piene di soldi. Li ho visti io». Per ogni fusto prendevano 500 mila lire (mentre alle discariche autorizzate sarebbe costato due milioni usando l’«attrezzatura speciale»). Richiesto di stimare la quantità di rifiuti sepolti: «Milioni e milioni di tonnellate, per bonificare ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato di un anno». «La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato… Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, questo avrebbe forse potuto esistere?».
Nel luglio del 2013 termina il programma di protezione e si trasforma in una star televisiva che rilascia interviste “pesanti”. Alle Iene nell’ottobre 2013, inforcando e sfilandosi gli occhiali da sole per dieci minuti, ha spiegato di avere scontato dieci anni e mezzo di carcere – sarebbero stati 7-8 ergastoli se non si fosse pentito – e si è attribuito cinquanta-settanta omicidi, salvo averne commissionati oltre cinquecento («La prima volta ci rimanevi male, poi pensavi Mors tua vita mea»). Fatti due conti, spendeva 20-30 milioni al mese per la casa, due cameriere, yacht, «bunga bunga».
«Si diceva “amato dalle donne, inseguito dal 113”».
Intervistato da Radio 24 il 26 gennaio 2014: «Venivano da aziende del Nord e anche dall’ex Germania dell’est questi rifiuti tossici ancora interrati. Ci sono ancora tantissimi siti dove nessuno ha scavato, perché il popolo altrimenti farebbe la rivoluzione. Perché si è costruito sui rifiuti tossici. Per anni la gente del posto faceva a gara per vendere i terreni alla camorra, invece di denunciare (alla commissione parlamentare sui rifiuti aveva indicato in 7-10 milioni mensili a ettaro, il compenso garantito a chi dava in gestione i terreni, ndr). Non ho niente da perdere, io sono l’ultimo mafioso dinosauro rimasto di quei casalesi, gli altri sono tutti o morti o in galera. E per questo parlo». Nel 2008 viveva sotto copertura nella Bassa Tuscia con moglie e due figli, quando fu arrestato per detenzione di un fucile e una pistola (scarcerato dopo poche ore). Lo aveva denunciato il figlio. Processo in corso a Viterbo. Tra i testimoni un assessore a cui il figlio di Schiavone aveva offerto un kalašnikov per andare a caccia. «Era seguito dai servizi sociali, a volte dormiva sulle panchine, lo abbiamo affidato più volte una struttura gestita dalle suore».
Il suo nome tornò alla ribalta in quello stesso anno, quando voci raccolte dalle forze dell’ordine lo davano come possibile organizzatore di un attentato contro Roberto Saviano. Ma sulla circostanza non emersero riscontri concreti. Prima che le Iene spegnessero i riflettori su di lui, ci ha tenuto a dire la sua sulle stragi di Capaci e via D’Amelio: «I magistrati non si ammazzano, si corrompono. Chi li ammazzati? Un ignorante come Riina, o un pecoraio come Provenzano? Vuoi che ci prendiamo una denuncia per calunnia io e te o vuoi essere ammazzato da qualcuno qui fuori? Ma tu che pensi: i segreti di Stato… lo sai quanti ce ne stanno sepolti?».
Carmine Schiavone è morto.
La storia sua storia è definitivamente terminata in un ospedale nel Viterbese, dove era ricoverato da alcuni giorni in seguito ad una caduta, secondo alcuni. Secondo alti, invece, sarebbe deceduto in casa, in seguito ad un sopraggiunto infarto.
A prescindere dalle circostanze in cui si è spenta la vita di Carmine Schiavone, non cambia la realtà dei fatti: uno dei fautori del disastro ambientale più devastante della storia dell’umanità, non è stato vittima dei veleni che ha concorso ad iniettare nella sua stessa terra.
Quindi, fino alla fine, è riuscito a passarla liscia.