Le storie sulle persone che arrivano da un paese lontano dal nostro, racchiudono due emozioni che vivono in simbiosi: la dolcezza e la tragicità.
La dolcezza di poter raccontare realtà sconosciute e nuovi orizzonti e il dramma di chi lascia affetti per abbracciare la speranza di un mondo nuovo, ma soprattutto migliore.
Storie di uomini e donne che mettono da parte il loro vissuto per iniziarne un altro e non sempre il principio è costellato di strade in discesa… Anzi.
Napoli raccoglie e accoglie molte di queste persone: ognuno con il suo carico di attese e sogni che, purtroppo, vengono infranti, ma ci sono anche storie che vanno a buon fine e che lasciano porte aperte. Una di queste storie si chiama Hamath Sow e viene dal Senegal. Come molti extracomunitari, ha una laurea in Gestione delle Risorse umane. Venendo in Italia, cullava un sogno: diventare un manager, ma nessuno gli aveva detto che non sarebbe andata così.
Prima di arrivare a Napoli è passato per Parigi, ma non aveva nessuno lì e allora ha pensato di scendere di nuovo giù.
A Napoli esiste, tra gli extracomunitari, una sorta di banca del soccorso chiamata ” Tontine” che è un sistema di aiuto tra “fratelli”; ognuno dà quello che può per aiutare un ” fratello”. Così, a rotazione ne usufruiscono. Hamath si è avvalso di questo aiuto per pagarsi un pezzo di letto dove dormire; con fatica è risalito e oggi fa due lavori: mediatore culturale dando una mano a chi ha bisogno di permessi di soggiorno e poi lavoro di sera in un ristorante dove è un tuttofare: aiuto chef, lavapiatti e cameriere.
Tutto ciò è possibile che accada e accade quando le barriere culturali si abbattono, quando si capisce che il “diverso” è arricchimento e cultura, quando il sapere è soprattutto conoscenza profonda dell’altro e questo è possibile solo se c’è “quel pizzico di anima” che fa la differenza.
La storia di Hamath e quella di altri migliaia di extracomunitari dovrebbe far riflettere, ma non loro. Dovrebbe far riflettere noi, soprattutto quando voltiamo la faccia altrove, perché è risaputo che il dolore altrui è fastidioso, spesso annoia, ma abbiamo il dovere di soffermarci su di esso perché, se non lo facciamo, non siamo e non saremo mai un popolo civile: la civiltà di un paese si misura con il rispetto che si ha per gli altri, anche se questi “altri” hanno un colore diverso dal nostro.