Ho ricordi vaghi, come fotogrammi sparsi, spaiati, della mia visita ai campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau in occasione del giorno della memoria di qualche anno fa. Una vaghezza dettata non dalla disattenzione, badate bene, ma dalla plumbea e melliflua atmosfera in cui mi sentivo trasportata.
I luoghi dell’ orrore sono tali solo quando sei lontano da loro, quando leggi di loro, quando non hai paura di loro. I luoghi dell’orrore diventano luoghi d’evidenza, di penosa verità, invece, quando li calpesti. Quando lasci impronte sulla neve e ti sembra già ferita, infinitamente colpita. Quando il terriccio è sanguinolente e l’ aria è pregna di fetore che ti infiamma le narici. Morte.
Non è così violento il primo impatto, così come non lo sono mai i paradossi umani. È più un percorso di consapevolezza. Prima non sembra reale, e poi ti accorgi dell’aria che stai respirando.
Il mio impatto con la verità è stato ad Auschwitz, in un corridoio. Immagino sappiate che prima dei tatuaggi ai prigionieri venivano fatte delle foto, poi il numero crebbe così esponenzialmente che immortalarli diventò troppo dispendioso. Molti corridoi di quello che oggi è il museo del più famoso campo di concentramento sono tappezzati di queste immagini. Occhi vacui, occhi speranzosi, occhi non più coscienti. C’era tutto, e immagino ci sia ancora. Vagavo timorosa in quegli anfratti, seguivo attentamente le spiegazioni della guida: ero li per sapere, documentarmi, non per sentire, sentire davvero. Ad un certo punto, però, mi imbattei nel ritratto di una donna, e allora mi fermai, improvvisamente disinteressata alla fiumana intorno a me. Questa donna, credetemi, mi somigliava moltissimo. Mi somigliava incredibilmente, al limite dell’inverosimile. È stato allora che ho sentito veramente. Mi sono immedesimata completamente in quella storia, in quegli occhi chiari così simili ai miei ma al tempo stesso così spenti da non sembrare umani, completamente spogli dell’anima che un tempo doveva averli abitati. Lei sapeva, e si era arresa. Ho posato il quaderno, la penna, è ho relegato la macchina fotografica ai momenti indispensabili. Ero li, e l’avrei vissuta pienamente.
Auschwitz mi ha messo di fronte alla vastità, all’imponenza, all’infinita quantità di esseri umani che hanno vissuto quella tragedia. Ci sono delle teche molto grandi, degli stanzoni quasi, pieni di effetti personali di quelle persone. Occhiali, abiti, capelli. Stanzoni che paiono infiniti, ma quella è solo una parte infinitesimale. Quello che non s’è riuscito a distruggere nei pochi mesi prima della liberazione.
C’è una stanza, chiamata stanza della fame, che ci tiene a mostrarti le razioni di cibo giornaliere. Ridicole.
Ci sono spazi dedicati alla documentazione degli esperimenti sui bambini. Ci sono tempi morti, fatti solo per piangere e chiedere scusa.
Ci sono milioni e milioni di momenti fatti di terribile impatto, ti temibile evidenza.
C’è la voce di una signora che mi dice “ bambina mia, ricorda tu per me. Ricordate voi per noi che stiamo scomparendo. Siamo vecchi ormai, troppo vecchi.”
Ricordo le camere a gas ed i forni crematori. Dio se li ricordo. Ancora mi turbano il sonno. Ho visto immagini di soldati tirare via anche i denti a corpi convinti di andare a fare una doccia, e ho letto di uomini che si ostinano a negare l’esistenza di tutto questo.
Poi ho visto Birkenau ed è stato persino peggio. Molto peggio.
La Puzza di morte. Ti investe appena varchi la porta, quella famosa, dove terminano i binari di un treno infame. Io ho sentito. Per quanto assurdo sia, ho visto. File indiane infinite di divise a strisce, di un cotone così leggero da farmi sentire tanto piccola e tanto ingrata nel mio cappotto imbottito. Il freddo lo ricordo bene e l’ho immaginato mietere vittime come un kalashnikov.
Ricordo le stalle adibite a stanzoni, lunghe a perdita d’occhio, e ho visto giovani, vecchi e bambini emanciati tentare il riposo. Ricordo le latrine comuni e l’ultima, intima, traccia di invulnerabilità assorbita da quei buchi nel cemento.
Ricordo il monumento, un monito di scuse, ora e per sempre, e ricordo di aver pensato che forse non cambierà mai niente.
Ricordo molte lacrime e religioso silenzio. Ricordo l’accortenza di alcune persone nel camminare, onde evitare sacrileghi suoni.
Ricordo un crepuscolo triste, triste da morire, e quella sensazione, più o meno comune, di essere stati testimoni e spettatori di un’apocalisse tutta umana.
È passato qualche anno da allora e, vi confesso, che faccio ancora fatica a parlarne, o a leggere libri che raccontano quei luoghi. Persino i film mi sono banditi.
Ma ho fatto una promessa, e ho intenzione di mantenerla fino all’ultimo giorno della mia vita. A quell’anziana signora, che forse oggi non c’è più, va il mio pensiero in questo giorno. Alla ragazza della fotografia, che mi ha dato la capacità di vedere veramente chi erano quei numeri che tanto m’ero premurata di studiare. A queste donne e tutte le altre. Agli uomini, ai bambini.
Io non dimentico