Gli invisibili, in quanto tali, trascorrono un’esistenza che, silenziosa ed indisturbata, s’incanala, per una ragione o per un’altra, più o meno prematuramente, lungo i binari della morte.
Un invisibile è invisibile da vivo, figuriamoci da morto.
Mustapha Naschid era senz’altro un invisibile da vivo, perché lo è da morto.
La sua vita si è spenta all’età di 29 anni, per effetto di una polmonite, sopraggiunta grazie alle ostili e tutt’altro che confortevoli condizioni che contraddistinguono la sua dimora.
La sua casa era la strada, il giovane era un senzatetto, abituato ad arrancare stenti e boccate d’aria gelida.
È morto lo scorso 8 dicembre, il giorno dell’Immacolata, all’ospedale Ruggi di Salerno, dopo un calvario durato sette giorni.
I medici dell’ospedale non sono nemmeno in grado di stabilire se quello sia realmente il suo nome.
Un autentico invisibile: senza nome, senza beni e senza bene.
E, da più di un mese, anche senza vita.
Il suo corpo, si trova tuttora riposto nella cella frigorifera dell’obitorio del Ruggi.
Ancora esposto al freddo. Anche da morto.
Nessuno, sino ad oggi, ha reclamato la salma del ragazzo.
Altrettanto sterili si sono rivelate le indagini avviate, anche nel giro degli extracomunitari di Salerno, per cercare di individuare l’identità di questo ragazzo. Di questo invisibile.
Morto da solo in una terra straniera, dove, probabilmente, era giunto coltivando il sogno di una vita migliore.