Per chi durante le festività abbia avuto voglia di andare al cinema, la scelta è stata ampia: Gone Girl, Big Eyes, American Sniper, The Imitation Game, Lo Hobbit – la battaglia delle cinque armate, e, fra le commedie, Si accettano miracoli, Il ricco, il povero e il maggiordomo e tanti altri.
Tuttavia, quanti fra questi sono film che rivedreste con piacere?
Pochi, o forse nessuno.
Ci sono classici del cinema che riescono in questa impresa e uno di questi è C’eravamo tanto amati (1974), di Ettore Scola. Se non l’avete ancora visto, poco male: non è troppo tardi per farlo, e per rifarlo. Fra battute memorabili e personaggi indimenticabili, questo film presenta uno spaccato della società italiana nell’arco di trent’anni, dal 1946 al 1976 circa.
Tutto ha inizio con un’automobile che accosta nei pressi di una villa e il titolo in sovraimpressione: scena che viene ripetuta per tre volte, anche se non in maniera identica. Questo forse perché il film presenta tre storie e tre prospettive: quella di un borghese, quella di un proletario, quella di un professore.
Tre storie che inizialmente sembrano una e univoca: la storia dell’Italia che resiste e che combatte, che sconfigge la dittatura, che inaugura la Repubblica. E invece no, non è così semplice.
Perché la frammentazione e la discordia sono dietro l’angolo e ciò che ne consegue sono le illusioni e le speranze disattese di un’intera generazione. Si raccontano dunque le vicende di Antonio (Nino Manfredi), Nicola (Stefano Satta Flores) e Gianni (Vittorio Gassman): Antonio vivrà nella medietà senza progredire né regredire, Nicola rimarrà attaccato a ideali talvolta utopistici a scapito della propria carriera, e Gianni si venderà al nemico, quello che fino a poco tempo prima chiamava “il padrone”, per il proprio tornaconto personale.
È una storia di tanti anni fa, ma è una storia italiana ed è attuale, per certi versi. Ricordate quando qualche anno fa Letizia Moratti, allora sindaco di Milano, pigolava contro le inchieste sulla ‘ndrangheta a Milano, perché “a Milano ci sono anche cose belle”?
O Berlusconi che lamentava quanto La piovra avesse rovinato l’immagine dell’Italia? Molto ameno, no? Sono atteggiamenti perbenisti e negazionisti non nuovi alla nostra classe dirigente. Mi riferisco alla memorabile scena del cineforum di Nocera Inferiore, in cui viene proiettato Ladri di biciclette (e non a caso, perché il film è interamente dedicato a Vittorio De Sica, scomparso durante la lavorazione del film). Tale film, applaudito con soddisfazione da Nicola Palumbo, genera l’indignazione dei democristiani, che così si esprimono: “Questi stracci e questi cessi ci diffamano di fronte al mondo!”
Scoppia una lite che porrà fine alla carriera di Nicola come professore e che darà inizio al suo declino professionale. Il tutto senza che il dibattito abbia portato a parlare dello “specifico filmico” Antonio, ragazzo di buon cuore, speranzoso e rassegnato a un tempo, afferma all’inizio del film: “Saranno i Gianni Perego a cambiare questa società!”
Forse, ma in che modo?
Gianni riuscirà infatti a far carriera grazie al suocero, il “palazzinaro” senza scrupoli Romolo Catenacci (magistralmente interpretato da Aldo Fabrizi), per poi scavalcarlo. L’epoca della “bustarella” all’assessore verrà rimpiazzata da un sistema di potere più raffinato, più ramificato, e Gianni lo sa: bisogna controllare i piani regolatori, i politici, le quotazioni in borsa. D’altronde lo stesso Catenacci, uomo privo di cultura ma concreto, aveva immediatamente inquadrato il futuro genero già dal loro primo incontro: “Io amo l’onesti, perché nell’onesti c’è quella purezza che, se je capita l’occasione, diventano tarmente mascalzoni che t’ammolleno le fregature pejo de li mascalzoni diciamo normali”.
Poiché, in medio stat virtus, il personaggio che godrà di un finale più lieto è Antonio, incarnante la medietà sociale, culturale e anche geografica. Non è un cinico spregiudicato come l’amico pavese, né è troppo idealista e astratto come il nocerino Nicola. Al di là di questa schematicità, ogni personaggio presenta un io forte ed è sapientemente tratteggiato, e il pessimismo di fondo viene smorzato da un umorismo sferzante e acuto. È un grande film che racconta i mutamenti di una società che, con ritmo inarrestabile, dalla fine della grande guerra galoppa verso il boom economico (come viene segnalato dal passaggio dal bianco e nero ai colori a metà film). Il mondo cambia senza che i personaggi abbiano davvero fatto la differenza o contribuito, se non in maniera negativa. Ma, d’altronde, per dirla con le parole di Nicola Palumbo, “Noi crediamo di cambiare il mondo, invece è il mondo che cambia noi”.
Isabella Galazzo