Come denunciato sul sito dell’ente no-profit Amnesty International il 15 ottobre 2014 veniva condannato a morte Sheikh Nimr al-Nimr, un esponente del mondo musulmano sciita a seguito di numerose accuse, molte delle quali considerate dallo stesso ente non consistenti o semplicemente non attinenti alla reità (accuse di atti che non dovrebbero essere considerati affatto un reato): “disobbedienza e slealtà nei confronti del capo dello stato”, “istigazione al rovesciamento delle istituzioni”, “istigazione a manifestare”, “istigazione a scontri settari”, “messa in discussione dell’integrità del potere giudiziario” e altri.
Premesso che sono state molte, troppe irregolarità durante il processo giudiziario, come l’impossibilità a preparare una difesa con l’avvocato od a rispondere per iscritto alle accuse, queste ultime gli sarebbero state attribuite sulla base dei suoi sermoni e delle interviste da lui rilasciate. E’ su questo punto che Amensty batte per sensibilizzare la comunità del web, ovvero sulla lesione del diritto alla libertà di espressione e di pensiero, e su come il percorso giudiziario sarebbe stato fortemente politicizzato contro una figura evidentemente “scomoda”, sperando di giungere all’annullamento della sentenza.
Rispetto a 37 anni fa, quando si teneva la prima conferenza internazionale sulla pena capitale ed i paesi che la ripudiarono erano appena 16, oggi quelli che l’hanno abolita sono 140 mentre in ancora 50 paesi è tuttora vigente. Tra i principali mantenitori ed esecutori di questa legge vi sono Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita, alcuni paesi degli Stati Uniti d’America e la Somalia.
La tendenza sembra essere quella che porterebbe ad un graduale superamento, pratico e culturale, di questa “legge del taglione”, ancora legata all’idea che anche nell’ambito umano vi sono elementi malvagi che vanno semplicemente “estirpati”. Non si esclude che ciò possa essere vero, poiché nessuno ha “la ricetta perfetta” per un mondo giusto e migliore, ma alla luce del progresso culturale umano ed anche delle tante vittime che i poteri coercitivi hanno sempre mietuto, si sta facendo largo l’idea che forse è arrivato il momento di lasciarsi alle spalle una certa mentalità e tutte le ombre che questa porta con sé. In fondo per i nazisti era lecito eliminare ebrei, zingari, omosessuali, slavi, prigionieri politici ecc. perché il clima culturale dell’epoca lo consentiva; la vera questione si configura come il riuscire ad immaginare un sistema giudiziario il quale, al di là della gravità o della consistenza dei reati (che sono sempre e comunque una concezione socio-culturale), non punti alla mera “eliminazione del problema”, a quella che sembra essere la soluzione più semplice e scontata ma che solitamente non è la migliore. E’ il percorso che porta alla ricerca della “riconversione”, dell’espiazione delle colpe, attraverso il lavoro socialmente utile, i centri di rieducazione, non semplici sbarre che contengano animali pericolosi, senza per questo macchiarsi di buonismi e moralismi da salotto ed anzi, rimarcando il giusto peso delle azioni “sbagliate” degli uomini ed attribuendogli il giusto dazio per ripagare quanto tolto alla società, fermo restando che le regole non possono essere intese come universali ma vadano sempre riviste nel contesto d’appartanenza e nella specificità della situazione.