“Sono un immigrato di colore, o meglio, come dicono da queste parti: “sò nir’” e sono transessuale, o meglio, come dicono da queste parti: “omm’ vestut’ a femmn’”, “femminiello”, “miez’ e miez’” e mi fermo, perché potrei continuare all’infinito.
Abito, o meglio, abitavo in un basso in Vico del Rifugio ai Tribunali, come ve lo spiego dov’è?
È uno di quei vicoli che sembra uguale a tanti altri, uno di quelli in cui, anche uno come me, impara in fretta a parlare il napoletano; uno di quelli dove non batte mai il sole, però c’è sempre tanto casino.
Eppure sono morto nell’indifferenza.
Forse ho urlato “Aiuto” e nessuno mi ha sentito.
O non mi hanno voluto sentire.
Da queste parti si sa che è meglio non impicciarsi nei casini dei “nir’ femminielli”.
Mi hanno trovato ieri mattina, poco prima delle 10.30, ma chissà da quanto tempo ero morto. Nei bassi non entra la luce, nei bassi vive chi è senza speranza.
Forse è per questo che sono morto nella disperazione della solitudine.
Alcuni miei vicini, mi hanno visto riverso sul divano, in un atteggiamento troppo spento, “più da vivo che da morto.”
Allora, hanno pensato di chiamare il 118, ma i medici non hanno potuto fare niente per me, quando sono arrivati, hanno solo potuto dire in faccia alla gente che stava sull’uscio di casa “È muort’”.
Allora, mi hanno messo un lenzuolo addosso e mi hanno portato a fare l’autopsia. Sembra che sono morto per l’ingestione di una dose eccessiva di droga.
Scusatemi, preso dalla solennità del momento, non mi sono nemmeno presentato.
Non lo so come mi chiamo, devo aspettare che mi identificano, perché non tenevo i documenti, stamattina, quando sono morto.
Allora, diciamo che sono un invisibile, uno di quelli che calpestate con la vostra indifferenza, uno di quelli che non hanno volto né nome né anni né passato né presente né futuro.
Uno di quelli che si portano cuciti negli occhi storie di solitudine, violenza, fame, ripudio ed abbandono. E ora pure di morte.
Uno di quelli che vi permette di tirare un sospiro di sollievo, quando i vostri occhi si imbattono nei nostri drammi, in quanto, il raffronto tra i problemi che delineano la vostra vita e quelli che condannano la nostra, vi permette di sentirvi “fortunati”.
Uno di quelli che esiste per consentirvi di poter dire: “Ci sta chi sta peggio di noi!”
Uno di quelli che aveva gli stessi diritti degli “altri” esseri umani, ma non aveva il diritto di rivendicarli.
Uno di quelli dai quali scappate, perché sono “diverso” e questo fa paura, più della morte.
Eppure, talvolta, basterebbe possedere quel blando fardello di coraggio necessario per soffermarsi ad osservarci anche solo per quell’esiguo arco di tempo necessario e sufficiente per conseguire la conquista della verità, ossia: è solo la drammaticità che vige nei nostri occhi e nei nostri cuori ad essere “diversa”, ma anche noi siamo persone, come voi.”