Il ruolo della donna nella società indiana ha subito innumerevoli e rilevanti mutazioni nel corso della millenaria storia del Paese che hanno concorso a delineare una società di tipo patriarcale, tuttora in vita, a dispetto della modernità che contraddistingue l’era contemporanea nella maggior parte delle nazioni mondiali.
La Costituzione indiana del 1950, redatta dopo l’indipendenza dagli invasori inglesi, stabilisce parità di diritti, di partecipazione alla politica, all’istruzione e all’impiego, affermando uguaglianza e pari opportunità. Nonostante figure come quella di Indira Gandhi, l’unica donna al mondo ad aver mantenuto la carica di primo ministro per 15 anni, e le importanti vittorie conseguite dall’attivismo femminista indiano dagli anni 70 in poi, la realtà consegna un ben più cruento e feroce volto, deturpato da un escalation di continua violenza ed umiliazione alle quali quotidianamente è sottoposto il genere femminile in India.
Realtà che sfrontatamente emerge in tutta la sua preoccupante brutalità dal rapporto di 106 pagine, frutto di una ricerca condotta da Human Rights Watch dal titolo ” Trattate peggio delle bestie” incentrata sugli abusi subiti da donne e ragazze con disabilità psicosociali o intellettuali nelle strutture competenti in India. Quest’inchiesta si basa su studi praticati sul campo, negli ospedali psichiatrici di 6 diverse città indiane: Nuova Delhi, Mumbai, Calcutta, Pune, Bangalore e Mysore e raccoglie più di 200 testimonianze di donne, famiglie, responsabili dei servizi sanitari e funzionari di governo che ha lasciato emergere questa terribile verità sullo stato agghiacciante in cui versano queste strutture.
In una società dove la donna è trattata o come animale da riproduzione o come una prostituta, questa è solo l’ennesima delle vessazioni e delle violenze a cui la parte femminile del paese è sottoposta da fin troppo tempo. Nonostante il fatto che nel 2007 il governo indiano abbia vietato l’istituzionalizzazione forzata, affermando il diritto di capacità giuridica delle persone con disabilità a vivere in condizioni di parità, esistono anche leggi in India che consentono ai tribunali di nominare tutori che prendono decisioni a nome delle persone con disabilità mentale, senza il loro consenso. Ma venire abbandonate dalla famiglia e dalle istituzioni in veri e propri manicomi sovraffollati e luridi, costrette a pratiche quali elettroshock, abusi sessuali, violenza mentale e solitudine è solo un’altra delle varie modalità di violenza attuate nei confronti della categoria femminile. Ciò che nitidamente traspare, mediante la suddetta denuncia/inchiesta, non è solo la cattiva gestione di ospedali psichiatrici o un’ingiustificata violazione dei diritti degli internati, ma soprattutto una catena di pratiche oppressive.
In India, la popolazione maschile predomina numericamente sulla percentuale femminile: gli uomini rappresentano “la maggioranza” grazie a pratiche quali infanticidio e aborto selettivo femminile, assassinii domestici o frutti di vendette, con la complicità della mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria a servizio del “sesso debole”.
Donne, senza libertà, senza dignità, senza proprietà, senza la possibilità materiale di potersi difendere.
Le leggi in India stanno cambiando, è vero, ma ancora troppo lentamente e con scarsi risultati pratici, soprattutto a discapito di chi stanzia sui gradini più bassi della società.
Ancora oggi lo stupro coniugale non viene contemplato né nella definizione di stupro né di violenza sessuale, in quanto non ancora inteso come violazione del consenso. Sta cambiando anche la legge per mettere al bando i test di determinazione del sesso durante la gravidanza, ma questo non è abbastanza: è necessario che le leggi vengono celermente e realmente attuate dagli organismi competenti. Gli artefici delle violenze, quindi, molto frequentemente restano impuniti, mentre la colpevolizzazione e lo sfinimento delle donne è così forte da generare non solo la paura di denunciare le sevizie subite, ma ha innescato una sorta di meccanismo indotto che le induce ad accettarle con rassegnazione come se fosse in qualche modo “giusto o lecito”.
In una situazione altresì soffocante, dove le ritorsioni non sono solo minacce, ma una realtà di fatto, qual è la soluzione?
Ciò che dolorosamente trapela dal sopra citato studio, non è solo il crimine contro persone con problemi mentali – aspetto che riveste una gravità di per sé inaudita – bensì il reiterato tentativo di ridurre alla nullità persone che prima ancora di raggiungere la parità di genere, si vedono negare la possibilità di ambire al conseguimento delle basilari e legittime caratteristiche che concorrono a disegnare lo status di essere umano.