Jessica è una ventenne come tante con un volto, un corpo e soprattutto degli occhi che urlano un triste ed impacciato disagio frammisto al desiderio di afferrare una vita distesa e dignitosa o semplicemente “normale”.
I capelli lunghi, mossi e leggermente crespi, un filo di fastidiosa barba, un corpo mascolino adattato ad assumere parvenze e movenze femminee, un sorriso timido ed educato.
Jessica è una delle tante ragazze che lavora in uno dei call center nascosti nelle buie e squallide stanze dei palazzi che si susseguono e si rincorrono sul Corso Arnaldo Lucci di Napoli. Un lavoro al quale si è dovuta adattare, non per scelta, ma piuttosto perché rappresentava la sua unica scelta.
Per rendersi indipendente, lontano dalla sua famiglia e da quella realtà così ostile ed ancor più incapace di tollerare, capire, capirla, senza vomitare velenosi e gratuiti insulti, senza disegnare battutine infelici e risate malefiche lungo la sua ombra.
Fino a quando era minorenne, sulla carta d’identità e secondo la percezione di quel feroce ed intransigente contesto, era uno studente iscritto all’Orientale, nato e cresciuto nella tortuosa San Giovanni a Teduccio, ma nel cuore, nell’anima, nella testa e nelle intenzioni era già ed è sempre e solo stata Jessica. Una volta raggiunta la maggiore età ha scelto di prendere in mano le redini della sua vita ed uscire allo scoperto: ha lasciato quel quartiere, ha abbandonato la casa dei genitori e perfino l’università, consapevole del fatto che “una come lei” non sarebbe mai riuscita a trovare un lavoro abbastanza ben retribuito da consentirle di pagare un affitto, provvedere al suo sostentamento e perfino di mantenersi gli studi. Quindi, l’Università ha assunto le beffarde spoglie di “un lusso”, un semplice e sincero sogno da riporre nel cassetto, al quale è lecito poter rinunciare per dare piena, totale e massima espressione al suo io, alla sua libertà, ma soprattutto all’amore.
Durante il primo anno di università, infatti, Jessica ha conosciuto un ragazzo, all’apparenza “uguale agli altri”, ma, in realtà, rivelatosi capace di guardarla con occhi diversi fino ad innamorarsi di lei.
Per lui fare i conti con la sua omosessualità risulta un processo più spinoso e disagevole rispetto alla serena e totalizzante accettazione di sé stessa attuata da Jessica.
Lui ha accettato di trasferirsi con Jessica sulle pareti del Vesuvio, nel cuore dell’entroterra napoletano, lì dove la vita è più contaminata da campagne che da strade ed è tutto più disteso e meno inquisitorio, ma ai suoi genitori ha lasciato credere di condividere la casa con più amici.
L’estremamente e profondamente diversa gestione della vita e delle emozioni di quella giovane coppia, trapela in tutta la sua cruda diversità quando si ritrovano seduti uno accanto all’altra nella carrozza del treno che li conduce da Napoli al paese in cui è ubicato il loro nido d’amore: tutti guardano Jessica, perché è lei “la diversa”, quella che risalta agli occhi per quelle fattezze da uomo imbrigliate in un velo di rossetto e calze ed abiti femminili, ma ciò non le crea alcun imbarazzo, perché lei ha occhi solo per il suo lui. Di contro, l’impacciato ed ingestibile imbarazzo di lui trapela in tutta la sua palese nudità e si fa sempre più marcato quando Jessica gli prende la mano, lo accarezza, allunga le labbra per rubargli un bacio.
È l’inappropriata inadeguatezza di chi ospita un ossessivo tarlo roditore in testa che gli tormenta l’anima avvolgendola in una turbinosa tempesta di sensi di colpa e perbenistici precetti inculcati da famiglia, perbenistici sermoni, sacerdoti e chi più ne ha più ne metta.
È il disagio di un corpo incapace di distaccarsi da quell’identità “imposta” per afferrare quella che vive nel suo cuore per consentirgli di vedere la luce e masticare pieni ed appaganti respiri.
È stata Jessica a raccontarmi la sua storia d’amore e privazione: “Quando siamo soli, siamo felicissimi ed innamoratissimi, perché lui riesce ad essere sé stesso e a vivermi liberamente. Porto pazienza e non gli metto fretta, quando si sentirà pronto a parlare con i suoi lo farà, quando sarà pronto ad essere lui a prendermi la mano mentre camminiamo per strada, lo farà. E se quel giorno non dovesse mai arrivare non importa: so che mi ama, per me lui è come un libro aperto, mi riesce estremamente facile leggere quello che ha dentro e quindi lo percepisco in pieno il suo travaglio interiore. Non posso fare altro che stargli vicino per provare ad alleviare le sue pene, com’è giusto che faccia ogni buona compagna con il suo uomo, al cospetto delle avversità che la vita ci riserva.”
Fa specie la padronanza della sua stessa identità sfoggiata da Jessica anche e semplicemente attraverso la gestualità e la mimica espressiva: “So di essere donna, mi sento donna anche se non lo sono fisicamente e non è una consapevolezza che può essere cambiata da un insulto o una cattiveria gratuita. Viviamo in un mondo costernato dall’ignoranza, in cui due ragazzi per amarsi e vivere i propri sentimenti liberamente devono isolarsi ed andare a vivere su una montagna, con tutti i pro e i contro che questa scelta comporta. Il treno impiega 40 minuti per arrivare a Napoli e viceversa e se malauguratamente perdo l’ultima corsa delle 20,04 devo attendere l’unica forma di collegamento che intercorre tra la città e “quella provincia” quando la Circumvesuviana va a dormire: l’autobus sostitutivo che parte da Napoli alle 21, per essere a casa verso le 22! Non possiamo permetterci un’auto, con quali soldi la manteniamo!?”
Perché oltre ad essere una coppia omosessuale, Jessica e il suo ragazzo sono anche due lavoratori, giovani e precari, sfruttati, sottopagati, tutt’altro che tutelati da leggi e contratti, costretti a fare quotidianamente i conti con sacrifici, rinunce, stenti e privazioni.
“Il mio stipendio fisso è di 250 euro, forse a breve me lo aumentano a 300, con le provvigioni che maturo su ogni contratto che “porto a casa”, riesco ad arrivare anche a 500 euro, se mi impegno. Di certo non è facile convincere le persone ad accettare di chiudere un contratto telefonico, questo lo sappiamo tutti e lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, ma ho tanta pazienza e sono sempre gentile: due doti che, alla lunga, vengono sempre premiate. È l’unico lavoro al quale posso ambire, perché per i clienti contattati sono solo una voce e alla mia titolare interessa solo che chiuda i contratti. Però, quando capisco che dall’altra parte c’è una vecchietta che non è in grado di comprendere quello che le sto dicendo sono io a chiudere subito la telefonata. So che gli altri ne “approfittano”, ma quella per me si chiama “truffa” e io non voglio guadagnare raggirando le persone, non mi sentirei in pace con la mia coscienza e questo per me non ha prezzo e viene prima di tutto. Il mio ragazzo lavora in uno studio grafico come apprendista, lui per all’università ci va ancora, perché i suoi gli pagano le tasse, quindi, unendo i nostri stipendi riusciamo a tirare avanti, anche se ci sono giorni in cui per poter mangiare dobbiamo chiedere in prestito un pacco di pasta ad una signora che abita poco distante da noi. Mi invento sempre qualche scusa, tipo che sono uscita senza borsa ed è tardi per fare la spesa perché i negozi sono chiusi o che non mi sento molto bene e quindi preferisco non allontanarmi da casa. Credo che lei non mi abbia mai creduto e che in cuor suo sappia la verità, non son molto brava a mentire ed è umiliante dover dire: “Non ho i soldi per comprarmi da mangiare”. Quando poi torno per restituirglielo, quel pacco di pasta non lo accetta mai, mi dice di conservarlo per la prossima volta che ne avrò bisogno.”
Avrei un milione di altre domande da fare a Jessica e i suoi occhi hanno ancora tanto da raccontare, ma il treno delle 20,04 sta per partire, quindi è doveroso lasciarla tornare a casa e fissare un nuovo e senza dubbio interessante incontro.