Questa è l’incredibile ed amara storia che attanaglia la vita di Luigi Coppola, un imprenditore napoletano vittima dell’asfissiante racket da parte della Camorra, ma che ha avuto il coraggio di denunciare. Tuttavia, dopo il corteggiamento degli inquirenti e le deposizioni in udienza, l’avvio del cosiddetto “programma di protezione dei testimoni” ciò che è rimasto nella sua vita è solo un progressivo abbandono.
Pericolo, indifferenza, solitudine, miseria.
La vita di un testimone di giustizia deve fare i conti, necessariamente, con una fantomatica assistenza statale che la legge riconosce sulla carta, ma che di fatto viene puntualmente disattesa.
Luigi Coppola nel 1993 apre un’attività di vendita auto “plurimarche” a grossa cilindrata. Siamo a Boscoreale, paese vicino Pompei: zona calda non solo perché ubicata alle pendici del Vesuvio e questo a Luigi risulta ben chiaro quando, di tanto in tanto, si presentano al negozio: “Abbiamo un compariello a cui devi fare un buon prezzo”. Finge di non capire, Luigi; ci perde poche centinaia di lire e fa passare la “cortesia” come un gesto di arte commerciale, per compiacere il cliente.
Questi, in gergo camorristico, si chiamano “avvicinamenti”.
Un po’ come fa lo squalo che, prima di sbranare la vittima, gli gira intorno. È il 1995 e l’azienda, che ha un box auto di lusso, registra un buon fatturato. Esche assai appetibili per “i guappi”.
Nel 1998, però, inizia il vero calvario di Luigi.
Sono le quattro del mattino. Luigi è in partenza per il nord, quando si accorge che i cancelli della rimessa erano stati forzati e sette auto rubate. La perdita è di circa 100 milioni di lire.
Il giorno dopo, l’imprenditore viene contattato da un certo Luigi Di Martino, detto O’ Profeta. Gli dà appuntamento a un bar al confine tra Pompei e Torre Annunziata.
“Se vuoi indietro le macchine devi darci 30 milioni di lire”.
Coppola preferisce non pagare. Che le brucino pure, dice tra sé.
Senonché, tra queste vetture rubate c’era quella del cognato di Di Martino, affiliato al clan dei Cesarano. Quest’ultimo contatta l’estorto e gli chiarisce un concetto molto chiaro: “Se bruciano la mia macchina, tu me la paghi. Facciamo così: dammi i soldi del riscatto che ci penso a consegnarli a quelli…”.
Per quella cifra a Luigi conviene riprendersi tutte le altre auto rubate. Tratta sul prezzo e riesce a scendere da trenta milioni a quindici. Firma un assegno postdatato di dieci giorni e glielo consegna.
Non passano due ore dalla consegna del titolo che qualcuno lo contatta sul cellulare e lo guida telefonicamente su una delle pareti del Vesuvio, una zona ricca di ristoranti. Lì Luigi ritrova la refurtiva. In ogni auto c’è una tanica di benzina.
Pochi giorni dopo, alcune persone entrano nell’ufficio di Luigi, abbassano la serranda del negozio e si chiudono dentro con lui. Riferiscono di essere lì per conto di Pesacane Giuseppe, “il boss di Boscoreale” e gli comunicano che la mattina seguente sarebbero andati a prelevarlo per condurlo proprio a casa del boss, il quale, l’indomani, gli chiede di denunciare lo smarrimento dell’assegno versato per recuperare le auto che gli erano state rubate.
Coppola fa quello che gli viene chiesto. Non ci mette molto a capire che è al centro di una guerra tra cosche per il controllo della zona e che lui è la mela della discordia.
Dopo altri tre giorni, Luigi viene di nuovo chiamato da Luigi Di Martino, O’ Profeta, per conto di Cesarano. Anche lui è al corrente di tutto e, prima che l’assegno scada, gli comanda: “Dovete dire a Peppino Pesacane che se voi non mi pagate l’assegno io vi mando le botte. E Peppino Pesacane può essere il più grande camorrista della zona, ma le mani davanti non ce le mette. Quindi, regolatevi voi… E arrivederci.” I modi sono sempre più bruschi e categorici.
Coppola finisce per diventare ambasciatore dei due clan. Si riporta così da Pesacane e gli racconta dell’ultimo incontro avuto col cognato.
Don Peppino non si scompone: “Tu non ti preoccupare”, lo rassicura. E gli mette, all’interno dell’autosalone, a mo’ di scorta, una persona di sua fiducia che, dalla sera alla mattina, controlla la zona. Coppola dispone della protezione della criminalità.
Passano pochi giorni quando si presenta, all’autorimessa, Pesacane in persona. Il boss, senza tanti giri di parole, esibisce, agitandolo nell’aria, l’assegno che, a suo tempo, era stato staccato a Cesarano. Era riuscito a procurarselo. Glielo mette davanti e poi gli dice: “Questo è l’assegno che avete dato a mio cognato. Ora ne fate un altro e lo intestate questa volta a me”.
Passa il tempo e Luigi tenta, ogni volta, di rinviare il pagamento, rappresentando le difficoltà in cui ormai versa la sua attività per via dell’estorsione. Così la somma aumenta di volta in volta. E, a ogni scadenza, il “prestito” della criminalità matura i suoi interessi.
Il debito, in pochi mesi, arriva a 40 milioni, 60 milioni, 100 milioni, fino a raggiungere oltre 200 milioni di lire.
Probabilmente, tutto ciò che interessa al boss è assorbire l’azienda di Coppola, per lavare i soldi sporchi. Così per un anno, Pesacane aspetta, concede dilazioni, applica ulteriori interessi, si prende auto a piacimento, succhia dalle casse dell’azienda.
L’imprenditore è costretto a chiedere soldi agli strozzini che poi versa alla camorra; è costretto a chiedere alla camorra dilazioni per pagare gli strozzini. Il lavoro di Coppola è ormai diventato quello di acquistare soldi per coprire le falle.
Finché il boss gli dà l’ultimatum.
Un giorno, gli scagnozzi degli usurai di Torre Annunziata, cui Luigi aveva chiesto i prestiti, si presentano a casa sua. Hanno visto la sua auto in cortile e credono di trovarlo dentro l’appartamento. Invece c’è solo la moglie, appena uscita dalla doccia. Ha una bambina in braccio e l’altra per mano. Scassano il cancello, vi si arrampicano, arrivano sin dentro. Sono in otto. Hanno i volti, la violenza e la furia di cani rabbiosi.
Strattonano violentemente la donna, ancora in vestaglia con entrambe le piccole. La fanno inginocchiare a terra: “Devi dire a tuo marito queste precise parole: ovunque lo trovo, gli do trenta botte in testa”.
È la goccia che fa traboccare il vaso. Luigi, appena sa dell’accaduto, si reca in caserma e lì si chiude per due giorni interi. È un fiume in piena e racconta tutto quello che sa. Le estorsioni subite, i ricatti, le violenze e tutto ciò di cui, indirettamente, vivendo a contatto con quelle persone, era venuto a conoscenza.
Partono le indagini che portano all’arresto di trentadue persone, tra affiliati al clan Cesarano, Pesacane e Gionta. Ventitré di queste verranno condannate in via definitiva per associazione mafiosa. Tutti gli altri avranno condanne per capi di imputazione minori. Il clan dei Pesacane subisce il più grosso colpo della sua storia. Un clan che veniva chiamato “banda armata” per la sua brutalità.
Dopo le prime dichiarazioni rese alla DIA, Luigi viene corteggiato dalle istituzioni: carabinieri e procura lo trattano come uno di loro. Ciò nonostante, il supertestimone non riceve alcuna protezione; viene lasciato solo, senza neanche una volante a controllare la casa. Secondo le autorità, non c’era alcun pericolo, visto che i delinquenti erano stati arrestati. Eppure accade che venga avvicinato da amici in comune e che gli venga mossa qualche velata minaccia. Qualche altra volta viene picchiato: qualche botta, un occhio nero, un po’ di calci, pugni.
Un giorno lo portano perfino al cospetto di una persona che aveva forti legami con un latitante che gli dice: “Chi te lo fa fare… I carabinieri prima o poi ti mollano, quelli escono di galera e ti ammazzano. Questo tu lo sai. Possono fare del male a tua madre, a tuo fratello. Senti a me, torna a fare il tuo lavoro. Ti lasceranno in pace se ritirerai tutte le denunce. Non testimoniare e continuerai a vendere le tue macchine”.
Luigi finge di acconsentire, dice di “si”, che ritirerà tutto, ma ha con sé un registratore. E le intercettazioni finiscono nelle mani della DDA.
Collaborazioni pericolose, che mettono in serio rischio la vita del testimone. Le indagini passano al dott. Giuseppe Borrelli che, appena sente le registrazioni, chiama l’imprenditore e gli dice: “Coppola, qui ti fanno nero. Te ne devi andare. Non ti preoccupare. Vedrai, sarà solo per poco… Sarai tu a decidere se tornare…”
Per Luigi invece è l’inizio di un’Odissea.
Quella notte alcuni incaricati delle forze dell’ordine si presentano a casa sua per trasferirlo nella prima località protetta.
Nessuno deve accorgersi della sua partenza. La famiglia lascia tutto com’è, senza portare nulla se non le cose di stretta necessità. Non sa che quello è il primo sintomo di una malattia che si chiama “programma di protezione testimoni”.
Dopo una notte in macchina, la mattina seguente i quattro si svegliano in una realtà completamente diversa. Sono in Piemonte. Gli viene data un’abitazione, ma sono come persone invisibili a tutti. Nomi falsi, scelti all’ultimo momento, ma senza documenti di copertura. Una serie di bugie ai nuovi amici per coprire le loro vere identità.
La famiglia cerca di ricostruirsi lentamente una vita, costruendo nuove relazioni, inventando un passato che non è mai esistito.
Come ogni testimone di giustizia, Luigi non ha un’identità ufficiale e, pertanto, non può lavorare. Lo Stato gli eroga un contributo minimo di 1.900 euro al mese per far campare l’intera famiglia.
Un giorno, un paio di persone vicine ai clan di Boscoreale si avvicinano a Luigi.
Lo riconoscono, lo chiamano per nome. “Luigi, che ci fai qua?” Ed hanno un tono sarcastico, di chi sa e si diverte a spaventare. Luigi si preoccupa, lo dice ai Nuclei Operativi di Protezione (NOP); questi non gli credono. Poi, dopo circa venti giorni, i due uomini vengono fermati dai carabinieri. E dopo due ore, Luigi e la sua famiglia sono costretti a scappare per una nuova località protetta.
Vengono trasferiti nelle Marche, a Pesaro. Dopo sei mesi i NOP si accorgono della presenza di alcune persone che potrebbero riconoscerli. Ancora una volta bisogna fuggire.
La nuova destinazione è il Veneto. Inizialmente gli danno una camera in un hotel ad Abano Terme, in attesa che venga completato un appartamento a Vicenza. Luigi aveva chiesto un’abitazione ove trasferire la propria mobilia, rimasta ancora a casa sua, per evitare che marcisse.
Di nuovo bugie coi vicini di casa, di nuovo identità false, di nuovo a costruirsi una vita “non vita”.
È aprile del 2004. Sono passati venti giorni dal trasferimento. Luigi ha appena finito di montare la mobilia e appendere i chiodi al muro quando i NOP gli notificano un provvedimento della Commissione Centrale di Protezione.
“Sentita la DDA, sentito il parere del Ministero, sentito il Pubblico Ministero, sentito questo, sentito quello… insomma, siccome il processo è finito e non c’è più pericolo per l’incolumità del testimone, la Commissione delibera la revoca del programma di protezione”.
Luigi non crede ai propri occhi. Il processo è tutt’altro che finito. Anzi: non è nemmeno entrato nel vivo dell’istruttoria. Ma, ciò nonostante, gli viene revocata ogni misura di protezione.
Eppure la legge sui testimoni (L. 45/2001) prevede che il programma cessi quando termina lo stato di pericolo. Invece, secondo i modellini prestampati della Commissione, se gli imputati sono dietro le sbarre dell’aula, a sentenza non ancora emessa, ogni rischio per l’incolumità del testimone scompare magicamente.
Che sia o meno frutto di un errore, di disinteresse o di un deliberato piano di abbandono, a Luigi viene imposto di lasciare la casa entro sessanta giorni. Gli viene offerta una capitalizzazione di 227 mila euro per ricominciare una nuova vita.
E poi, la beffa. Dopo quindici giorni, i carabinieri di Vicenza gli notificano un avviso. C’è la convocazione per la nuova udienza del processo al quale deve rendere la testimonianza. Lo stesso processo che, secondo la Commissione, è ormai finito. Sembrerebbe quasi che le istituzioni, quelle con le quali Luigi ha collaborato, rinunciando alla sua tranquilla vita, lo stiano prendendo in giro.
E così non resta che giocare. Luigi prende la famiglia e, per una settimana, si nasconde in Umbria, a riposarsi lontano da tutti. Lo cercano in lungo e in largo. Il pubblico ministero è furibondo. La sua deposizione viene rinviata alla successiva udienza e un processo intero si ferma.
Quando ritorna a Vicenza, i Nuclei di protezione lo raggiungono e lo ammoniscono: “Lei rischia l’espulsione dal programma di protezione per non essere andato a testimoniare!”
Quando Luigi rientra a Vicenza, il Viminale gli notifica il rientro nel programma di protezione.
Successivamente, però, la Commissione gli comunica di nuovo la revoca del programma. Inutile dire che il processo è ancora in corso. Gli scrivono, invece, che non c’è più pericolo. Però, nello stesso tempo, lo diffidano dal tornare nel suo paese di origine per via dei gravi rischi di incolumità che lì corre. Contraddizioni difficilmente spiegabili alle nostre istituzioni.
Così Luigi fa ricorso al Tribunale Amministrativo. Si trova un accordo: Luigi rinuncia al ricorso al TAR e, in cambio, gli viene ridata la protezione e un contributo straordinario di 200 mila euro per ricominciare la sua attività. Nel frattempo, con tutta la famiglia, fa rientro al paese natio.
Poco dopo a Luigi viene revocata la vigilanza fissa. Intanto, una mattina la polizia trova una cartuccia di pistola inesplosa con una bottiglia piena di benzina. Alla Commissione l’avranno scambiato per un gesto di folklore napoletano, un festeggiamento per il rientro di Luigi nel suo paese. E così, tentano di revocargli anche la scorta.
A Pompei, Luigi trova difficoltà di ogni tipo. Abbandonato dalla collettività, che lo teme, viene tenuto a distanza anche dalle istituzioni. Si moltiplicano le petizioni della popolazione alle maggiori istituzioni: all’arma dei carabinieri, alla procura della repubblica, alla polizia di stato, questura, sindaco. Tutti a chiedere l’allontanamento della famiglia Coppola, perché pericolosa, causa di “destabilizzazione sociale”.
Perfino la scuola delle figlie di Luigi sprizza atteggiamenti ostici ed ostili.
I soldi finiscono subito. La gente non acquista più dall’azienda di Coppola. Hanno timore, con quell’auto dei carabinieri, in divisa, sempre davanti al negozio.
Dall’altro lato, l’INPS non ha dimenticato il pregresso contributivo che l’imprenditore doveva versare nel periodo in cui è stato – disoccupato – sotto il programma di protezione. Così, al rientro, gli dà il benvenuto: una lettera di messa in mora e l’intimazione a pagare una cifra enorme, insieme a tutte le maggiorazioni pretese, per il ritardo, da Equitalia.
Quindi, quel testimone di giustizia, senza cui il P.M. non avrebbe potuto procedere agli arresti, e che prima era stato corteggiato e lusingato, viene presto dimenticato, avvertito dallo Stato come un peso, un costo, un approfittatore delle risorse pubbliche. E la società, invece di stringersi a lui, lo evita, lo considera pericoloso, lo emargina.
Luigi oggi vive appoggiato dai suoi familiari e dalle collette degli amici.
Al contrario di molti altri testimoni, ha però deciso di rimanere nel suo paese di origine, di non viaggiare in continuazione. Ha rifiutato l’idea di costruirsi una vita in un’altra parte lontana dalla sua terra. Che a fuggire siano i delinquenti, non lui.
I processi sono finiti nel 2009, ma Luigi Coppola non ha ancora ricevuto tutti i benefici economici previsti dalla legge, compreso il risarcimento del danno. Dalla Commissione fanno sapere che i rubinetti sono chiusi, i soldi sono finiti.
Senza casa, senza lavoro, era un imprenditore e ora è un elemosinante, un morto che cammina senza protezione.
A Luigi lo Stato e la Camorra hanno tolto tutto. Eccetto dignità ed ideali.
Fonte: la legge per tutti