Dici Napoli e la prima cosa a cui pensi è la pizza. Perché la pizza rappresenta, scusate il gioco di parole, un pezzo della cultura italiana in generale, napoletana in particolare. E allora, che cosa succede se qualcuno decide di indagare sulla qualità della pizza? Succede che non si fa attendere la protesta da parte di commercianti e pizzaioli partenopei. Questa reazione è prevedibile, visto che per loro la pizza è fonte di sostentamento. La reazione che, invece, non ci si aspettava o, comunque, non in maniera così veemente è quella del pubblico, degli oltri 2 milioni di italiani che la pizza la mangiano tutti i giorni e che non hanno esitato a difenderla a spada tratta.
Ma, andiamo con ordine. Quel qualcuno che ha realizzato l’inchiesta sulla pizza è Bernardo Iovene, giornalista della trasmissione di Rai3 “Report”, condotta da Milena Gabanelli. La domanda che si pone e che pone Iovene è: la pizza è cancerogena? Per rispondere a questo quesito prende in esame ingredienti e preparazione della stessa.
Partiamo dagli ingredienti: farina, mozzarella, pomodoro e olio.
La farina – la pizza viene preparata utilizzando farina 00, che è una farina nociva. Infatti, si ottiene attraverso la macinazione industriale del chicco di grano, che comporta l’eliminazione del germe (ovvero il cuore nutritivo del chicco, che contiene aminoacidi, acidi grassi, sali minerali, vitamine del gruppo B e vitamine E) e della crusca (la parte più esterna, particolarmente ricca di fibre). Tutto questo porta ad un impoverimento della materia prima: da questa macinazione si ottiene, infatti, una farina raffinata, che si mantiene a lungo e rende gli impasti soffici ed elastici, ma che presenta un’elevata concentrazione di zuccheri.
Il professor Franco Berrino (ex direttore del Dipartimento di medicina predittiva e per la prevenzione dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e consulente della Direzione scientifica) sostiene che l’uso abituale della farina 00 provoca un aumento della glicemia e dell’insulina, determinando nel tempo un maggior accumulo di grassi depositati ed una maggiore esposizione al rischio di malattie di ogni tipo, tumori inclusi. Gli fa eco Umberto Volta, specialista di Medicina interna e malattie cardiovascolari, secondo cui, per via dell’elevata concentrazione di glutine contenuta al suo interno, se assunta in grandi quantità, la farina doppio zero causa un’alterazione della barriera intestinale.
Ridurre questi rischi è, però, possibile. Basta far lievitare l’impasto della pizza almeno 24 ore. Una lievitazione prolungata, infatti, favorisce l’eliminazione del glutine: più l’impasto cresce, minore è la quantità di glutine che presenta.
Molte pizzerie, tuttavia, lavorano sulla velocità. E questo soprattutto al Nord e al Centro Italia. Da Milano a Roma, passando per Firenze, i tempi tradizionali di lievitazione oscillano tra i 30 ed i 180 minuti e spesso la lievitazione è accelerata utilizzando miglioratori enzimatici. In alternativa c’è sempre la pasta surgelata: la base arriva abbattuta, cioè è cotta per metà e poi surgelata, ma chi mangia la pizza non può saperlo perché non ci sono leggi che impongano di indicare al cliente come vengono preparati i cibi serviti.
La mozzarella – il latte usato per produrre la mozzarella per la pizza si preferisce importarlo dalla Germania piuttosto che prenderlo dagli allevatori campani, perché il latte tedesco arriva al caseificio già pronto per essere utilizzato e costa meno rispetto a quello italiano.
Il pomodoro – in passato si usava esclusivamente pomodoro San Marzano, un prodotto tipico di un’area compresa tra 41 comuni dell’Agro-sarnese-nocerino. Oggi, però, si preferisce utilizzare i pelati, perché costano di meno. Il pomodoro tipo lungo viene prodotto al 97% in Puglia, quindi chi usa i pelati usa sicuramente un prodotto italiano. Il pomodoroo concentrato, invece, viene importato in parte dalla Cina ed in parte dagli Stati Uniti, per un totale di 105 milioni di Kg di concentrato.
L’olio – per il classico giro di olio fatto sulla pizza si utilizza l’olio di semi (di girasole o di soia) che, a detta dei pizzaioli, è più leggero rispetto all’olio extravergine di oliva. Quest’ultimo, però, contiene, come sottolinea Gino Celletti (Capo Panel Consiglio Oleicolo Internazionale) polifenoli, che sono antiossidanti, quindi aiutano a proteggerci dai tumori e dalle malattie cardiovascolari. Inoltre, l’olio di palma contiene il 51% di grassi saturi (contro il 15% dell’olio d’oliva), ed i grassi saturi se presi in dosi che superano i 20 grammi al giorno possono provocare obesità e malattie cardiovascolari.
Passiamo ora alla preparazione della pizza. Quali sono gli errori che rischiano di trasformare un piatto gustoso in un pericolo per la nostra salute? Innanzitutto la pulizia del forno. Il forno va pulito ad ogni inizio turno con un apposito panno, altrimenti i residui di farina, di olio, pomodoro e dei trucioli del legno finiscono per bruciare la base della pizza e creare un fumo nero che è assai dannoso. Infatti, come sottolineato dall’ecotossicologo Guido Perin (Università di Venezia), il prodotto della combustione del legno (come di qualunque altro composto) contiene dei cancerogeni, perciò se non viene eliminato, finisce per essere assorbito dalle pizze. Inoltre, nella pizza al forno si trovano tracce di idrocarburi polinucleari: benzopirene, benzoantracene, benzofluorantene. Le pizze cotte in forni senza fumo, invece, hanno una quantità limitata di idrocarburi (si passa da 19 microgrammi a 13, 9 e 8).
Evitare di carbonizzare la base della pizza si può, però. Basta utilizzare una pala forata in modo da eliminare la farina in eccesso nel momento in cui si trasferisce l’impasto nel forno. Inoltre, la temperatura del forno va mantenuta costante, e questo si ottiene infornando un numero limitato di pizze alla volta.
E per quanto concerne la pulizia dei contenitori dell’olio? Questi andrebbero igienizzati periodicamente per evitare che irrancidiscano l’olio che contengono. L’abitudine comune, tuttavia, è quella di non lavarli.
Altro argomento dibattuto riguarda i cartoni utilizzati per le pizze da asporto. Questi possono essere di 3 tipi: in pura cellulosa, semichimici o riciclati. Distinguerli è semplice, basta osservare il colore al loro interno. I cartoni in pura cellulosa sono bianchi, i cartoni semichimici sono marroni, mentre quelli riciclati sono grigi. E sono proprio questi ultimi ad essere incriminati. I cartoni riciclati, infatti, contengono residui di inchiostro che, inevitabilemente, penetrano nel cibo con cui vengono a contatto. Pur essendo vietati dalla legge, questi cartoni sono i più utilizzati. Il motivo, neanche a dirlo, è il prezzo. In Italia si producono ogni giorno 2 milioni di pizze da asporto, per un totale di 700 milioni di scatole l’anno. Con questi numeri la concorrenza è ferocissima e si gioca sui centesimi: vende di più chi vende a meno queste scatole.
In conclusione: pizza sì o pizza no? E, soprattutto, i pizzaioli sono una categoria da demonizzare? La pizza è e resterà il piatto principe della cucina italiana, quello per il quale la nostra cucina è conosciuta in tutto il mondo. Come in tutte le cose, però, un po’ di misura e di buon senso non guastano mai. Misura nella consumazione del prodotto: il troppo storpia, si sa. Ma non “storpia” solo la troppa pizza. Tutti gli alimenti vanno consumati nella giusta quantità, nulla fa male in assoluto. Il buon senso dovrebbe riguardare, invece, la cura nella scelta delle materie prime e nella pulizia del proprio locale. La qualità paga, nel breve, nel medio e nel lungo termine. E siamo certi che i sacrifici di tutti quei pizzaioli che lavorano ogni giorno per garantirci un prodotto di eccellenza saranno ripagati, servizio di Report a parte.