Mentre cullavo i miei pensieri su uno dei sediolini celesti e trasandati della “vecchia linea” della Metropolitana di Napoli, per intenderci, quella che va da Granturco a Pozzuoli, il mio sguardo cade sulla storia raccontata dal corpo del ragazzo che mi sedeva di fronte.
Doppio taglio, pantaloncini, scarpe da pugile, camicia sbottonata fino al petto, dalla quale trapelano timidi accenni di peli, ruvidi e spessi, quelli che spinosamente riemergono in seguito ad una depilazione alla quale sono andate incontro anche gambe e braccia, resa necessaria per levigare la pelle, così da agevolare il lavoro di un tatuatore.
Almeno è quanto suggeriscono quei disegni, grezzi ed approssimativi, sparsi un po’ ovunque: sulla coscia, sul petto, sull’intero braccio.
Uno ad uno, spiccavano tutti i “must”, i quotatissimi disegni che segnano le tendenze e che, pertanto, si edificano come immancabili sul corpo di un aspirante “cultore delle mode”: l’otto nero, l’asso di bastoni, più comunemente noto come “ass’ e mazz’”, un rosario, la sagoma di una grossolana Betty Boop, il classico e popolarissimo bacio, nomi di persone che rivestono un ruolo importante in quella vita.
Questi gli accenni tratteggiati sul braccio, non ancora colorati, quindi in attesa di andare incontro alla rifinitura che tramuterà quel brandello di carne nello stereotipo imposto dalla moda che dilaga tra i ragazzi, o meglio, tra certi maschi, quelli che ergono i calciatori a icone e che identificano nel rap di turno il nuovo Messia.
Sulla coscia, deterso in un massiccio strato di crema, spiccava l’enorme faccione di un deturpato Padre Pio, mentre anche il petto si presentava parimenti impiastricciato di un novizio segno indelebile, non facilmente identificabile, in quanto, dalla sgargiante camicia, trapelava appena qualche accenno.
“Li ho fatti tutti insieme, perché così il tatuatore mi fa risparmiare.”
In questo modo esordisce quel ragazzo per appagare la curiosità che, probabilmente, grondava in maniera sincera ed eloquente dal mio sguardo.
Iniziamo a chiacchierare e mi spiega che si è prestato a fare da cavia di un tatuatore alle prime armi, tant’è vero che lo stile dei suoi disegni lo lascia facilmente intuire, come lui stesso sottolinea: “Non sono fatti bene come quelli di un tatuatore esperto, ma guarda quanti me ne ha fatti e li ho pagati quanto avrei speso per farmene uno solo da un professionista. Purtroppo non la possibilità economica per fare “tatuaggi buoni” e quindi mi sono dovuto accontentare, perché oggigiorno se non hai i tatuaggi non sei nessuno.”
Quest’ultima frase proietta la conversazione verso scenari imprevisti e inaspettati, aprendomi un dilagante squarcio su una mentalità ben radicata in taluni contesti.
“In questo momento, “sei uno buono” se ti fai un tatuaggio dedicato a Ciro Esposito o a quel ragazzo sparato dal carabiniere a Rione Traiano… Se è pure contro “le guardie” è meglio ancora!”
Eppure, la rivelazione più importante da sviscerare, giace proprio sotto quella camicia, custodita in quel tatuaggio che mi mostra con orgoglio: di fattura più che pregevole e palesemente confezionato da mani diverse rispetto a quelle che avevano disegnato gli altri, un’apoteosi di cornici ed orpelli che contornano una scritta: “Bodo”.
Non ho bisogno di chiedergli il significato né le motivazioni alla base della differenza stilistica e qualitativa tra quel tatuaggio e gli altri: Bodo è il soprannome di uno dei principali capoclan di Ponticelli, Marco De Micco che, nonostante la sua giovane età, in brevissimo tempo, ha intrapreso una precoce ed efficace scalata al potere che è altresì servita per garantirgli, l’assoggettamento, il favore e il rispetto degli affiliati, al tal punto da indurli a tatuarsi quel soprannome, il suo soprannome, quale segno di ammirazione e rispetto, perpetui ed incondizionati.
Attualmente sottoposto al regime degli arresti domiciliari in Lombardia per tentata estorsione aggravata dalla matrice camorristico, Marco De Micco è un vero e proprio idolo per i ragazzi, più di Alessio, più di Insigne, soprattutto per i più giovani che in lui rilevano un modello al quale guardare con fierezza e al quale ispirarsi per “diventare uno buono”.
Ragion per cui, quel tatuaggio non rappresenta un semplice ornamento, piuttosto costituisce il moderno battesimo d’onore, quello che, probabilmente, ha sostituito il “patto di sangue”, poiché, il simbolo che si sceglie di sposare per l’eternità assoggetta ad uno e soltanto ad uno “esercito della camorra”.
Basta ricordare l’occhio tatuato sotto al braccio che identificava gli affiliati del clan Birra-Iacomino di Ercolano. Ubicato proprio lì dove il muscolo si tende per dimostrare elasticità, forza, potere. Un occhio per guardare lontano, per proteggere “gli amici”.
“Conosco almeno 2.000 ragazzi che si farebbero ammazzare per Bodo e forse anche di più. Io per il momento mi posso definire un “semplice soldato”, ma sono convinto che posso riuscire a fare carriera, così con i soldi che guadagnerò questi tatuaggi li coprirò con altri più belli!”
Lui non poteva sapere di sedere di fronte ad una giornalista.
Io non potevo sapere di sedere di fronte ad un “semplice soldato”.
L’ironia della sorte insita nella quotidianità di Napoli è proprio questa: talvolta ama mettere alla prova capacità e scaltrezza regalando “improvvisazione”.