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La vestaglia: il mantello che avvolge “le regine” di Napoli

Luciana Esposito di Luciana Esposito
27 Luglio, 2014
in In evidenza, News
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La vestaglia: il mantello che avvolge “le regine” di Napoli
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1545675_10202827247025114_35503502_nLa vestaglia si può definire tutt’altro che un vero e proprio indumento.

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Quantomeno, nell’immaginario collettivo, assume le parvenze di una coperta-vestito, utile a rattoppare la pigrizia di chi preferisce trascinarsi prima in cucina al cospetto di una macchinetta grondante profumoso e sanguigno caffè, per poi disfarsi della tenuta da notte ed assumere “diurne spoglie”.

Oppure è l’armatura nella quale ci si avvolge allorquando la salute è intenta ad osteggiare il virus di turno.

Per i “signori” è un pregiato tocco di eleganza con il quale suggellare la propria nobiltà d’animo anche durante i momenti di relax, mordicchiando noiosamente un sigaro e sorseggiando un ricercato brandy, mentre per fascinose e sensuali donne, quelle in seta, maliziosamente ricamate, sono uno scaltro mezzo del quale avvalersi per enfatizzare la loro fulgida femminilità.

Di contro, nella Napoli popolare, assume un’accezione di senso peculiarmente encomiabile ed ancor più prolissa.

Di consueto, siamo abituati a storcere il naso quando, per strada o al supermercato, ci imbattiamo in donne che con spontanea, familiare ed avvezza spontaneità, si destreggiano tra scaffali e volti perplessi, coccolate dal caldo torpore sviscerato dalle loro vestaglie.

Quella perplessità nasce dall’uso improprio di un indumento che, per l’appunto, risulta essere creato ed ideato per non sconfinare oltre l’intimità delle mura domestiche.

La signora Gertrude è una di quelle donne che quotidianamente pratica “l’uso improprio della vestaglia” che, nel suo caso, è un infeltrito e roseo mantello di smisurata e sincera cordialità che ben s’intona con i suoi capelli ossigenati, ordinatamente raccolti in un mollettone ed, ancor di più, con la verace loquacità del suo sorriso.

Che indossi il pigiama o dei “normali” vestiti, poco importa, ogni volta che esce di casa, fino alle ore 15, Gertrude deve sempre indossare la vestaglia. Per lei e per “quelle come lei”, figlie di un’ideologia appartenente a “quella Napoli”, in realtà, è un vero e proprio soprabito o meglio, un indumento che assume un significato che va ben oltre quello superficialmente tradotto dalla mera e grossolana apparenza.

Quella vestaglia è intrisa di storie: racconta i decennali sacrifici di amorevoli ed orgogliose madri, narra l’amore, fedele ed incondizionato, verso un unico e solo uomo, su di essa sono intarsiati valori, principi, ideali, quelli appartenenti ad un’epoca che recepiamo come arcaica ed obsoleta, ma fortemente conservatori e portatori sani di quel “volersi bene” nel quale troppo di rado siamo soliti imbatterci.

Quella vestaglia è pregna degli odori e dei colori della nostra tradizione: il caffè, il ragù, le lacrime, il rispetto, la riverente arte del dare del “voi” e non del “lei”, la parsimoniosa lungimiranza di chi si arma di ago e filo per “rattoppare” piuttosto che “buttare via”, l’incondizionata, speranzosa e devota fede insita nel rosario che distrattamente gronda da una tasca, il misericordioso bacio stampato sul pane, prima di buttarlo via, l’inconfondibile gesticolio delle mani che accompagna le parole, inscenando un vero e proprio discorso nel discorso, il manico della scopa che, battuto ripetutamente contro il soffitto, funge da rudimentale, ma efficace citofono, per comunicare celermente con l’inquilina del piano di sopra, le confidenze spifferate tra un sorso di caffè e un rassicurante consiglio dispensato da un’amica, la musica partorita dalla radio, capace di avvolgere, travolgere e coinvolgere l’intero quartiere, il posto a tavola aggiunto per l’ospite a sorpresa, anche se la tavola è piccola e misera, perché il cibo e l’ospitalità non devono mancare mai,  l’abbraccio affettuoso di un figlio che in un batter d’occhio si trasforma in un nipote, quando con le spalle incurvate dal gravoso zaino che incombe sulla sua spensierata ingenuità, fa ritorno a casa, animato dall’impaziente desiderio di disfarsi di quel garbato grembiule e dei noiosi oneri scolastici ad esso inderogabilmente annessi.

Grazie a Gertrude ho capito che, in realtà, quelle donne, o meglio, quelle signore, utilizzano in quel modo “improprio” la vestaglia perché “Napoli è casa loro”.

Tags: napolinapoli popolarenapolitanquartierivestaglia
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