La crisi che stiamo vivendo è qualcosa che oltrepassa l’economia e la finanza, le fabbriche che chiudono e i commercianti che si disperano. La vera crisi è un’altra.
Questa grande crisi riguarda qualcosa di molto più sottile e profondo, è una crisi di percezione, di dissolvimento di antiche certezze. Si è passati dalla fissità dell’impiego alla precarietà mobile dell’incertezza, e questo con inevitabili ricadute che non si esauriscono solo nel versante economico.
La precarietà è diventata una sorta di malattia della contemporaneità, che rende complesso ogni programma, ogni tendenza verso il futuro. Il precario dell’esistenza non ha gli strumenti per prevedere minimamente il suo futuro, eternamente in bilico su una fune la sua impresa è sopravvivere alla marea, tenersi al ramo che spunta dalla corrente, senza farsi travolgere.
Non si tratta più di vita vera, ma di resistenza. I precari del nuovo millennio portano sulle spalle l’ingombrante zaino dell’assenza di orizzonte. Passo dopo passo, a evitare le mine del terreno, a stare attenti a non saltare in aria. E la coscienza del precario affonda così in una spirale di amarezza che lo inghiotte come un buco nero. Cerca risposte, ma non le trova se non in una speranza sempre più flebile. Forse aveva ragione Cioran, che a proprosito della speranza diceva “la speranza è la forma normale del delirio”. Eh, sì, sembra quasi un delirio oggi avere speranza. A furia di sperare si annega, e la precarietà attacca ogni cosa. Nulla più resiste in questo mondo. Certo il mutamento è sempre stato la cifra della storia, ma mai in maniera così radicale.
Non si riesce a posizionarsi in un contesto che immediatamente il precario dell’esistenza deve adattarsi a uno nuovo, con tutto il disorientamento che ne deriva. E così le cose che vive, le persone che incontra, scivolano via dalla sua vita come l’olio su un piano inclinato. Quest’uomo nuovo non riesce più a trattenere nessuna cosa, sempre costretto a stare bene attento a non cadere. E così facendo fatica anche a concedersi e a concedere amore, tutto racchiuso nella sua difficoltà a resistere alla marea. Stiamo vivendo una sorta di disumanizzazione sottile, dove l’instabilità porta l’essere umano a rinchiudersi dentro il suo mondo traballante, negandosi agli altri. E’ un idividualismo non più generato dalla logica del capitalismo, ma dettato dalla sofferenza di ciascuno.
E’ questa la vera crisi che sta colpendo tutti, e che rischia di far saltare in aria i vecchi dispositivi di senso e di comunità civile. Però c’è sempre il rovescio della medaglia, un rovescio che è difficile a vedersi adesso, ma che potrà portare i suoi frutti in futuro.
La precarietà obbliga a reinventarsi continuamente, ad attivare tutte le risorse dell’individuo, a non adagiarsi nella fissità del posto conquistato per sempre. L’intelligenza viene sempre stimolata a trovare nuove risposte, proprio come accadeva nei travagliati tempi antichi.Lì dove c’è instabilità lì c’è anche possibilità continua di tentativi, di prove continue, di scoperte.
E forse questa precarità permanente potrà portarci a nuovi orizzonti di senso, a tendere l’intelligenza al limite delle sue possibilità. Lì dove si vede una disgrazia spesso, appena un po’ più sotto, sta fiorendo una rinascita.
Certo nell’immediato è impossibile scorgere tutto questo, e l’uomo è da sempre abituato a contemplare il dato immediato delle cose. Perchè dovrebbe interessare alla vita del singolo cò che accadrà forse tra vent’anni? La realtà collettiva, benchè se ne parli come un bene prezioso, è in realtà l’ultimo pensiero di ogni essere vivente, interamente concentrato sui propri bisogni, sui propri dolori e sui propri progetti. Il mondo degli altri è,spesso, solo un’interferenza.
Nonostante questo stato di cose credo però che alla fine la precarità tornerà utile a qualcosa. Forse si realizzerà ciò che ho accenntao, e cioè una tensione maggiore delle nostre intere facoltà costrette a misurarsi con sfide continue, oppure accadrà qualcos’altro che non sappiamo. In entrambi i casi, questa vera crisi, come ogni crisi, dovrà pur portare a qualcos’altro…
Carlo Lettera