Un 36enne romano è stato accoltellato a Napoli, nei pressi della Stazione di Piazza Garibaldi.
“Questo è per Ciro” sarebbe la frase ad effetto, tutt’altro che confermata dalla vittima dell’aggressione in primis, che avrebbe pronunciato chi ha sferrato quei colpi utili a procurare lievi ferite all’anca e alla coscia sinistra.
L’uomo è stato già dimesso e non ha sporto denuncia, pertanto, sarà compito delle forze dell’ordine rintracciarlo per raccoglierne una testimonianza, che si fa, pertanto, fatica ad etichettare come “spontanea” che possa aiutare a ricostruire i fatti.
Un episodio facilmente ed abilmente accostato al ferimento, avvenuto giorni addietro, di un altro romano e romanista, attualmente residente a Napoli, dove lavora come aiuto cuoco in un rinomato albergo.
“Agguati che portano la firma degli ultras napoletani”.
Questo è quanto i media – e non solo – stanno sagacemente tentando di ricamare intorno ai due episodi.
Seppure, in entrambi i casi, tutto è ancora da appurare e non esistano prove, concrete e tangibili, che dimostrino che non si tratti dell’insano gesto di una mente depravata, mossa da esaltazione o da qualsivoglia malsana emozione.
Invece, a predominare la scena è l’ennesima pantomima condita da aspre e millantatorie illusioni che vogliono, ancora una volta, lasciar intendere ciò che non è.
Già, perché tutto quello che è accaduto dentro e fuori dallo Stadio Olimpico di Roma, durante quello sciagurato sabato di maggio, avrebbe, quantomeno, dovuto conferire un gramo, ma sostanzioso e sostanziale insegnamento: allorquando si barcolla in una nebbia di dubbi, risulterebbe maggiormente opportuno tenere il becco chiuso e le mani legate.
In realtà, il sentore di cui l’aria si è pesantemente intrisa da quando il cuore di Ciro Esposito ha iniziato a battere più lentamente fino ad arrestarsi completamente è che forte è l’interesse di “qualcuno” nel far cadere in fallo i napoletani.
Forse perché “la vendetta” costituirebbe il corpulento pezzo di carne da gettare repentinamente sul fuoco per generare quel fumo nel quale lasciar dissolvere ed “incasinare” questa scomoda realtà.
La realtà, quella realtà urlata a gran voce dalla signora Antonietta, encomiabile ed ammirevole madre di Ciro, dalla sua famiglia e da un intero popolo, stretto intorno alla famiglia Esposito e che, a gran voce, urla giustizia.
La Napoli presente ai funerali di Ciro Esposito, quella capace di tributargli un composto e commosso saluto, non cerca “quella giustizia” dalla quale gronda altro sangue, piuttosto, fortemente vuole assecondare la richiesta generata dal cuore in frantumi di una madre straziata dal dolore: chi, quel giorno, ha impugnato una pistola per compiere un agguato in piena regola contro i napoletani, deve pagare, nelle forme e nelle misure imposte dalla legge.
Quella legge che deve rivelarsi in grado di radicare nel suo popolo la tangibile ed inconfutabile convinzione che può e sa “fare giustizia”.
“Fare giustizia” per “questa Napoli” non è sinonimo di “giustiziare” e il riprovevole tentativo di ricamare questa tutt’altro che accreditata ipotesi sulle “storie di cartone” imbevute di stereotipi e luoghi comuni riguardo Napoli, i napoletani e la napoletanità, risulta, ancora una volta, non solo disgustoso, ma anche fuori luogo.
Il presagio che questi episodi debbano fungere da chiodi ai quali agganciare gli striscioni che inaugureranno la nuova stagione calcistica è forte, tristemente forte.
E questo sconcerta e preoccupa.
Perché, questa volta, può e deve essere auspicabile che, dalla morte, nasca qualcosa di sano.