Una intercettazione telefonica – riportata nell’ordinanza di custodia cautelare che ad ottobre del 2024 ha fatto scattare le manette per circa 60 affiliati al clan De Micco-De Martino operante a Ponticelli – tra una giovane donna e il suo fidanzato detenuto, identificato come Pietro Frutto, affiliato al clan De Martino di Ponticelli — ha riacceso un riflettore su una questione tuttora irrisolta e che rappresenta uno degli episodi emblematici e più significativi di come il clan che attualmente detiene il controllo del quartiere Ponticelli e delle strade limitrofe, esercita la propria supremazia tra le strade della città, anche servendosi di espedienti apparentemente banali e di poco conto.
«Ma come la schifo a quella giornalista! Madonna mia! È sempre lei! Niente di meno quando successe il fatto di Demar… mamma mia! …di tutto e di più ti disse!». Inequivocabile l’affermazione della giovane che fa riferimento alla giornalista Luciana Esposito, direttrice di Napolitan.it.
La frase “il fatto di Demar” si riferisce alla tragica morte del 22enne Demar Scognamiglio, avvenuta nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 2018 a Cercola, comune della provincia di Napoli al confine con Ponticelli, quando lo scooter sul quale viaggiava — guidato da Pietro Frutto, all’epoca 19enne — si schiantò contro una Fiat Panda guidata da un pensionato di 62 anni.
Scognamiglio, anch’egli di Ponticelli e con precedenti, morì sul colpo, mentre sia Frutto che il 62enne coinvolto nell’incidente fuggirono senza prestare soccorso.
Pietro Frutto, già noto alle forze dell’ordine, viene indicato come uno dei giovani del gruppo di affiliati del clan De Martino alias “XX” attivo su Ponticelli.
Nel 2021 è stato destinatario di un decreto di fermo per estorsione aggravata dal metodo mafioso, insieme ad altri giovani affiliati, per condotte di pressione su piazze di spaccio nel quartiere. Non è da escludere che quella sera i due erano in giro per compiere azioni delittuose o reati predatori e che in seguito all’incidente, Frutto abbia preferito allontanarsi lasciando l’amico agonizzante sul selciato, per occultare armi o refurtiva.
Sul luogo dell’incidente mortale — l’incrocio tra corso Domenico Riccardi e via Luca Giordano a Cercola — da anni permane una cornice con la fotografia di Demar Scognamiglio, divenuta un simbolo di controllo territoriale e di culto mafioso.
L’installazione, a tutti gli effetti abusiva, viene tollerata “per rispetto”. Ciò dimostra come le organizzazioni criminali utilizzino la morte come strumento di presenza sul territorio e di intimidazione sociale.
Un’associazione di fatti e persone che stride ancor più con i recenti avvenimenti di cronaca: nel 2024, il comune di Cercola è stato travolto da un’inchiesta giudiziaria relativa alle elezioni amministrative dell’anno precedente e che ha portato all’arresto di 7 persone, accusate di voto di scambio politico-mafioso.
L’intercettazione emersa — con la ragazza che accusa una giornalista e richiama la morte di Demar — evidenzia più elementi: in primis, il disprezzo verso chi racconta o indaga – “quella giornalista” – e la volontà di repressione simbolica dell’informazione. Perché, in territori come Ponticelli e dintorni, non è importante che certe cose accadano, ma che non vengano raccontate. A riprova di quanto sia determinante la pressione criminale in termini di omertà e connivenza.
Inoltre, il ricorso alla morte come “evento” che rafforza lo status del clan, tale che “il fatto di Demar” viene citato come riferimento interno e il modo in cui i giovani affiliati apprendono, celebrano e utilizzano i simboli mafiosi nei rapporti quotidiani concorre a ringalluzzire le quotazioni del clan, rafforzandone lo spessore criminale.
Il clan De Micco-de Martino è stato pesantemente colpito da un’inchiesta della DDA di Napoli che ha portato all’arresto di decine di affiliati, ma ciononostante, la presenza simbolica e materiale del clan — come la cornice-memoriale o l’occupazione abusiva di immobili — continua a evidenziare un controllo sociale persistente.
La vicenda di Demar Scognamiglio mostra come la criminalità organizzata non si limiti al traffico di droga o alle estorsioni, ma costruisca una memoria, una mitologia e una presenza territoriale che supera l’arresto dei suoi esponenti.
La cornice che ritrae il volto di Demar Scognamiglio non solo resiste al tempo, ma è stata addirittura sostituita con una nuova, più lucida e meno segnata dagli anni.
Un gesto che va ben oltre il semplice ricordo: quella cornice fissata con lo scotch a mezza altezza su un palo è una dichiarazione di potere, un simbolo di padronanza del territorio.
In una terra dove i segni dell’illegalità diventano parte dell’arredo urbano e dove perfino un tributo abusivo viene “rispettato” per timore o convenienza, lo Stato arretra e la camorra consolida la propria presenza.
Finché simili manifestazioni resteranno impunite e tollerate, la battaglia contro la cultura criminale non potrà dirsi vinta: la memoria di chi è morto continuerà a essere strumentalizzata come emblema di potere, non come monito di giustizia.











