Correva l’anno 2016, i De Micco detenevano il controllo degli affari illeciti a Ponticelli, dopo aver colmato il vuoto di potere scaturito dalla dissoluzione del clan Sarno per effetto del percorso di collaborazione con la giustizia intrapreso dai fratelli Sarno – fondatori dell’omonimo clan – e da altre pedine cruciali dell’organizzazione che per decenni ha saldamente detenuto il controllo dell’intera area orientale di Napoli e non solo. Tuttavia, un cartello composto dai reduci dei vecchi clan dell’area orientale di Napoli, rimaneggiati e danneggiati proprio da quel valzer di arresti e condanne che scaturì dalle dichiarazioni rese dagli ex boss di Ponticelli, mise a segno una serie di omicidi che alla luce del blitz che nella giornata di martedì 17 giugno ha fatto scattare le manette per sei persone, assumono una connotazione ben precisa.
I Minichini-Schisa-De Luca Bossa, forti del supporto dei Sibillo di Forcella e del latitante Ciro Contini, rampollo dell’omonima famiglia camorristica, misero a segno una serie di vendette trasversali nell’ambito delle quali ebbero la peggio Mario Volpicelli e Giovanni Sarno, rispettivamente cognato e fratello degli ex boss di Ponticelli, unitamente ad omicidi voluti per eliminare figure scomode che potevano intaccare i sogni di gloria della neonata alleanza. L’intento era spodestare i Mazzarella e conquistare una grossa fetta di territorio da controllare e che oltre l’area orientale partenopea includeva l’entroterra vesuviano.
A fungere da sfondo l’odio atavico incancrenito da ruggini, affronti, conti in sospeso, vecchi e nuovi rancori legati a un passato mai archiviato e che ha funto da elemento determinante nell’innescare quel vortice di vendette che ha risucchiato prima la vita di Mario Volpicelli e poi quella di Giovanni Sarno, entrambi estranei alle logiche malavitose e per stessa ammissione degli autori di quella mattanza, uccisi solo per “punire” i Sarno, ma anche i presunti responsabili dell’omicidio di Antonio Minichini, figlio di Anna De Luca Bossa e del boss Ciro Minichini, ma soprattutto fratellastro di Michele “o’ tigre” Minichini, non a caso esecutore materiale dell’omicidio Volpicelli. Tutt’altro che casuale anche la scelta della data: 30 gennaio 2016, il giorno dopo l’anniversario della morte di Antonio Minichini, freddato nel parco Conocal mentre era in compagnia di Gennaro Castaldi, unico obiettivo dell’agguato. Mario Volpicelli era lo zio di Gennaro Volpicelli, stimato essere – insieme a Salvatore De Micco – l’autore dell’omicidio Minichini-Castaldi. Poco importava al cartello nato soprattutto con l’intento di vendicarsi dei fratelli Sarno che Mario Volpicelli si guadagnasse da vivere lavorando come commesso in un negozio “tutto 50 centesimi” e che mai era stato inserito negli ambienti criminali. Quel duplice vincolo di parentela ha fatto di lui la vittima sacrificale perfetta.
Mario Volpicelli, ucciso per vendetta, freddato da una raffica di colpi. Sangue innocente versato per vendicare la morte di un innocente, ma anche per “punire” i Sarno che avevano osato rinnegare il codice d’onore spedendo all’ergastolo gli ex sodali ed alleati, come Roberto Schisa, marito di Luisa De Stefano, ideatrice e promotrice della mattanza che dal 2016 al 2018 ha seminato morte e terrore tra le strade di Ponticelli. Determinanti soprattutto le dichiarazioni rese proprio da lei, la regina del clan dei “pazzignani”, figura apicale dell’alleanza, regista di quegli omicidi che aveva ordito per vendicarsi dei collaboratori di giustizia, ma sui quali ha contribuito a far luce, in veste di collaboratrice di giustizia.
Un puzzle ricostruito grazie ai tasselli che principalmente mandanti ed esecutori hanno consegnato alla magistratura, unitamente ad altre figure di spicco della camorra locale che a loro volta hanno deciso di collaborare con la giustizia. Quello che emerge è un quadro desolante: buona parte dei soggetti che avevano preso parte a quelle azioni di sangue erano soliti vantarsi di aver ucciso degli innocenti. L’omicidio di Mario Volpicelli, in particolare, divenne una medaglia che bardava il petto della “regina del rione De Gasperi” che uccidendo il cognato dei Sarno estraneo alle logiche camorristiche, acquisiva la consapevolezza di essere temuta e rispettata, anche dai civili, e di disporre di quel prestigio criminale che riscattava in pieno il clan di famiglia, fortemente rimaneggiato dall’uscita di scena dei Sarno. A distanza di 10 anni, proprio le sue dichiarazioni si sono rivelate determinanti, supportate da quelle di suo figlio Tommaso Schisa che prima di lei aveva preso le distanze dalla camorra, seguite a ruota da quelli che un tempo erano dei camorristi convinti e che oggi supportano attivamente il lavoro della magistratura.
L’omicidio Volpicelli veniva mimato in carcere da uno dei soggetti che aveva ricoperto un ruolo nell’azione delittuosa e che pertanto aveva visto il killer Michele Minichini mettere a segno un omicidio particolarmente efferato. Proprio Minichini, esecutore materiale del delitto, avrebbe confessato di essersi accanito contro la vittima e che, a differenza delle altre circostanze in cui “aveva fatto il morto” non aveva sparato solo un paio di colpi, ma molti, molti altri. Una vera e propria esecuzione: questa, secondo Minichini, la vendetta più consona da inscenare per pareggiare i conti con i De Micco, i rivali di sempre, i responsabili della morte del suo fratellastro.
Appena due mesi dopo, a marzo del 2016, il clan entra nuovamente in azione per uccidere Giovanni Sarno, fratello disabile e con problemi di alcolismo degli ex boss di Ponticelli. Un omicidio “facile”, eseguito senza particolari difficoltà, in virtù del fatto che l’uomo viveva in condizioni precarie in un basso ubicato nell’isolato 26 ed era solito lasciare la porta aperta per consentire ai parenti di portargli da mangiare. Quando i sicari sono entrati in azione era disteso sul letto e dormiva. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia hanno rivelato un inaspettato colpo di scena indicando come esecutore materiale Ciro Contini, in quel momento storico latitante al quale “le pazzignane” avevano fornito appoggio e protezione. Un intreccio di interessi ed omicidi districato dai protagonisti, come lo stesso Michele Minichini che pur non optando per il pentimento ha reso dichiarazioni spontanee ed autoaccusatorie in ordine agli omicidi commessi.
L’ultimo dei tre delitti ricostruiti è quello di Salvatore D’Orsi detto “polpetta”, residente nel Lotto O, fortino del clan De Luca Bossa, in affari con i De Micco. D’Orsi orbitava nel contesto dello spaccio di stupefacenti, era vicino ad Alessio Esposito, affiliato ai cosiddetti “bodo” e sarebbe stato ucciso perché considerato una presenza scomoda da Michele Minichini, convinto che fosse pronto a fungere da filatore per consentire ai rivali di ucciderlo. L’agguato in cui ha perso la vita “polpetta” ha funto da banco di prova per “il pupillo” di’ o tigre: Giuseppe Prisco, un giovane intenzionato a mettersi in mostra negli ambienti criminali e per questo confluito sotto l’ala protettrice di ‘o tigre.
Un altro tassello inquietante che emerge dalle indagini che hanno portato agli arresti odierni riguarda le armi utilizzate per compiere gli omicidi: la pistola che ha sparato per uccidere Mario Volpicelli è la stessa utilizzata anche per eliminare il boss dei Barbudos Raffaele Cepparuolo e Giovanni Sarno.
Forti con i deboli, deboli con i forti: si sintetizza così la scia di sangue disegnata dai clan alleati di Napoli est nel periodo storico in cui hanno scritto una delle pagine più tristi della storica camorristica napoletana.