Ogni anno, centinaia di bambini perdono la vita nel tentativo disperato di attraversare il Mediterraneo. Piccoli corpi inghiottiti dalle acque, nomi che spesso non conosceremo mai, sogni stroncati prima ancora di cominciare. Sono figli di guerre, povertà, persecuzioni. Sono neonati stretti al petto di madri che sfidano il mare pur di offrire un futuro. Sono bambini che scompaiono senza voce, senza funerali, senza titoli di giornale.
Dietro ogni numero, una tragedia immane. E l’Europa, spesso, resta a guardare.
Secondo l’UNICEF e l’OIM, dal 2014 al 2024 più di 4.500 bambini sono morti o dispersi nel Mar Mediterraneo. Solo nel 2023, almeno 289 bambini hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. È una media spaventosa: più di 5 bambini a settimana. Ma questi sono solo i casi confermati: molti altri, annegati nei viaggi fantasma, non verranno mai conteggiati.
La rotta più letale è quella del Mediterraneo centrale, da Libia e Tunisia verso l’Italia, dove i barconi sono sovraffollati, insicuri, spesso privi di salvagenti, con condizioni disumane. E quando il mare si alza, il naufragio diventa sentenza.
Chi può dimenticare la foto del piccolo Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni ritrovato senza vita su una spiaggia turca nel 2015? La sua immagine ha fatto il giro del mondo, suscitando ondate di commozione. Eppure, anni dopo, la realtà non è cambiata.
Nel 2023, a Cutro (Calabria), un altro naufragio ha riportato l’orrore davanti ai nostri occhi: 35 bambini tra le vittime, molti dei quali mai identificati. Legni rotti, pupazzi galleggianti, scarpe minuscole a riva. Una scena che dovrebbe svegliare coscienze, e invece spesso dura il tempo di un notiziario.
Questi bambini non partono per “avventura”. Fuggono da guerre, in Siria, Sudan, Yemen, Gaza. Da carestie e crisi climatiche, in Somalia, Etiopia, Afghanistan. Da violenza e tratta: molti sono minori non accompagnati, prede facili per abusi e sfruttamento.
Loro e le loro famiglie affrontano deserti, carceri, torture nei centri di detenzione libici, ricatti. Poi il mare. Perché l’alternativa, spesso, è la morte.
Mentre i bambini muoiono, le politiche migratorie europee restano frammentate e orientate più alla deterrenza che alla protezione. L’assenza di corridoi umanitari sicuri e legali costringe le famiglie a rivolgersi ai trafficanti.
Nel frattempo, le navi delle ONG vengono ostacolate, le missioni di salvataggio ridotte. Il soccorso in mare – un dovere secondo il diritto internazionale – viene sempre più criminalizzato.