La tragica morte di Martina Carbonaro, 14 anni, uccisa ad Afragola dall’ex fidanzato, ha scosso profondamente l’opinione pubblica. In questo contesto, i social media, in particolare TikTok, hanno avuto un ruolo centrale nel raccontare e condividere il dolore della comunità. Non solo perchè i video pubblicati dalla 14enne sul suo profilo sono diventati virali, ma anche per i messaggi fuorvianti, distorti e perfino pericolosi che continuano a veicolare sui social, non solo in termini di istigazione all’odio e alla violenza, il cui caso più emblematico è rappresentato dalle minacce rivolte alla figlia della premier Meloni da parte di un docente campano che ha pubblicato un post in cui augurava alla figlia di appena 7anni del presidente del consiglio di fare la stessa fine di Martina. Insulti, minacce e imprecazioni sempre più esplicite accompagnano le immagini di Alessio Tucci, l’ex fidanzato 19enne di Martina autore dell’omicidio, ma i social non hanno risparmiato critiche e accuse neanche ai genitori della vittima, responsabili di aver consentito alla figlia di intrattenere una relazione affettiva con Alessio quando aveva 12 anni e lui 17.
Uno dei video più emblematici è stato pubblicato da Patrizio Chianese, noto come “il re degli hot dog” di Afragola. Nel video, Chianese si mostra insieme alla madre di Martina, esprimendo il proprio cordoglio e vicinanza alla famiglia della giovane, mentre prepara un hot dog che, a suo dire, era il preferito della 14enne, sua assidua cliente. Il contenuto, sebbene rimosso poco dopo la pubblicazione, ha suscitato numerose reazioni e riflessioni sull’uso dei social in momenti di lutto collettivo.
Una sorta di spot pubblicitario di cattivo gusto in cui la madre della vittima che indossa la t-shirt bianca sulla quale è stampato il volto di Martina, appare accanto al tiktoker in una sorta di spot pubblicitario tanto surreale quanto di cattivo gusto.
Questo episodio evidenzia come le piattaforme digitali siano diventate strumenti attraverso cui le comunità elaborano e condividono il dolore, mostrando una preoccupante predisposizione alla spettacolarizzazione del lutto. Un episodio che sottolinea quanto sia difficile da gestire l’inaspettata viralità acquisita, loro malgrado, dai familiari di giovani vittime di fatti di sangue. Una visibilità che irrompe sulla scena in un momento di dolore cieco e che rende i familiari delle vittime poco lucidi, incapaci di reggere la pressione mediatica e pertanto facilmente “utilizzabili” per qualsiasi mission.
Il video del “re degli hot dog” a pochi giorni di distanza dal femminicidio che ha gelato l’Italia scrive una delle pagine più brutte e allarmanti dell’era moderna. L’ennesimo, preoccupantissimo campanello d’allarme che pone l’accento sulle plurime e fin qui sottostimate insidie che si celano nel mondo dei social network, fomentate dalla sempre più dirompente necessità di essere virali a tutti i costi.
Una vicenda che solleva interrogativi importanti sul confine tra condivisione e rispetto, tra empatia digitale e invasione della sfera privata. È fondamentale riflettere su come utilizzare responsabilmente questi strumenti, specialmente in contesti di dolore e tragedia. In questo caso, il buon senso ha prevalso: il video è stato rimosso nel giro di poche ore, ma siamo sicuri che accadrà anche la prossima volta o rischiamo di orientarci verso uno scenario disposto a recepire come “normale” qualsiasi forma narrativa, utilizzando il dolore come giustificazione?