La sera del 18 maggio 1990, nel cuore del Rione Sanità di Napoli, la camorra ha compiuto uno dei crimini più atroci della sua lunga scia di sangue. Tra le vittime di quella notte di violenza c’era Nunzio Pandolfi, un bambino di soli due anni.
Nunzio era tra le braccia del padre, Gennaro, quando due killer irruppero nella loro abitazione. Senza esitazione, i sicari aprirono il fuoco, uccidendo entrambi. Un istante e una famiglia fu annientata, lasciando dietro di sé una scia di dolore e indignazione. La comunità del Rione Sanità fu sconvolta da quella tragedia, che divenne simbolo della brutalità senza limiti della camorra.
Durante i funerali, don Franco Rapullino, parroco del quartiere, pronunciò parole che riecheggiarono in tutta Napoli: “Fujtevenne ‘a Napule” – scappate via da Napoli. Un grido di rabbia, un urlo di disperazione che risuonava come una condanna verso una città stretta nella morsa della criminalità organizzata.
Le immagini di Nunzio sono rare, quasi inesistenti. Una delle poche foto conosciute lo ritrae mentre riceveva soccorso in ospedale, poco dopo l’agguato. Un’immagine che ancora oggi incide il cuore di chi la guarda, ricordando che la camorra non ha mai avuto pietà nemmeno per i più piccoli.
Per questo, oggi, vogliamo ricordare Nunzio in un altro modo, con l’immagine di una piccola bara bianca. Perché non è vero che la camorra non uccide i bambini. E perché di bare bianche come quella di Nunzio, Napoli ne ha seppellite troppe. Ricordare quelle vite spezzate è un dovere collettivo, per non lasciare che il silenzio e l’indifferenza continuino a fare da scudo all’orrore.
Nunzio Pandolfi non è solo un nome tra tanti. È un simbolo di innocenza violata, di sogni mai vissuti, di una città che lotta ogni giorno per risorgere dalle sue ceneri.