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La politica del clan Sarno: pentiti torturati e uccisi, decenni di delitti efferati

Luciana Esposito di Luciana Esposito
6 Gennaio, 2025
in Cronaca, In evidenza
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La politica del clan Sarno: pentiti torturati e uccisi, decenni di delitti efferati
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La recente incursione a Ponticelli dell’ex boss e ormai anche ex collaboratore di giustizia Vincenzo Sarno ha rievocato ricordi angoscianti, legati a un passato lungo e segnato da efferati omicidi che il quartiere aveva cercato di lasciarsi alle spalle. Un passato che torna ricorrente, in virtù dell’intenzione manifestata dal boss di riprendere la carriera malavitosa, malgrado le conseguenze scaturite dalle dichiarazioni rese alla magistratura in veste di collaboratore di giustizia. Uno status, quello di collaboratore di giustizia, che il 53enne mira a riacquisire, come comprova il ricorso al Tar con il quale ha chiesto di essere reintegrato nel programma di protezione, in seguito al provvedimento emesso lo scorso marzo dal quale non solo scaturì l’estromissione dal programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia con la conseguente perdita di tutti i benefici annessi, in primis quelli economici, ma anche il ritorno in carcere. Vincenzo Sarno ha scontato dietro le sbarre la pena residua che lo relegava agli arresti domiciliari. Una volta tornato in libertà ha chiesto di essere reintegrato nel programma di protezione, per poi concedersi un’incursione tra le strade del quartiere Ponticelli, l’ennesima violazione compiuta dall’ex boss che nel corso dei 15 anni vissuti da “pentito” ha collezionato una sfilza di arresti, palesando ripetutamente una condotta scellerata e tutt’altro che in linea con il percorso che aveva intrapreso.  

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A Ponticelli, Vincenzo Sarno non è tornato da turista, ma per indirizzare richieste estorsive ad alcuni commercianti del quartiere. Un segnale inequivocabile ed eclatante, quello lanciato dall’ex boss del quartiere, per annunciare il suo ritorno sulla scena camorristica, malgrado gli oltre dieci anni trascorsi sotto la tutela dello Stato in veste di collaboratore, dando man forte alla giustizia. Le dichiarazioni rese dall’ex boss di Ponticelli, dai suoi fratelli e dalle altre figure apicali del clan hanno sortito pesantissime condanne che hanno raggiunto molteplici famiglie camorristiche, molte delle quali ancora operanti nel contesto malavitoso partenopeo.  

Un impero che sembrava indistruttibile, quello fondato da Ciro Sarno detto ‘o sindaco, perchè era riuscito a conquistare un controllo capillare del quartiere Ponticelli per poi attecchire nell’area vesuviana e nel cuore del centro storico di Napoli, grazie all’alleanza con i Misso-Mazzarella, ma soprattutto forte del supporto di migliaia di affiliati. Parenti, diretti e indiretti, ma anche una caterva di giovani disposti a tutto, pur di supportare l’ascesa al potere dei fratelli Sarno.  

La parabola discendente ha avuto inizio proprio quando il clan era sotto le direttive di Vincenzo Sarno. Nel corso del trentennio durante il quale i Sarno hanno dominato la scena camorristica napoletana, i fratelli si sono alternati nella reggenza del clan, in base alle dinamiche dettati dagli arresti. Ad ereditare le redini del clan erano i fratelli a piede libero e nel 1998, Vincenzo Sarno era l’unico dei fratelli in stato di libertà. Immediatamente avviò una politica in netta antitesi con quella impostata e preservata dagli altri fratelli, praticando una serie di estorsioni a tappeto, senza fare sconto nemmeno agli amici. Tra quegli amici figuravano soprattutto i De Luca Bossa, fedelissimi dei Sarno, fino a quel momento. La scissione, verosimilmente ordinata da Teresa De Luca Bossa in seguito a una richiesta estorsiva di 300mila euro rivoltagli da Vincenzo Sarno, e attuata dal figlio Antonio De Luca Bossa, alias Tonino ‘o sicco, scaturisce proprio in questo frangente.  

Una scissione che ‘o sicco avrebbe voluto annunciare uccidendo l’ex affiliato e autore dell’affronto indirizzato alla madre: Vincenzo Sarno. Invece, ad avere la peggio è Luigi Amitrano, giovane nipote e autista del boss dei Sarno, unica vittima dell’esplosione dell’autobomba che gli uomini dei De Luca Bossa avevano piazzato nel ruotino di scorta dell’auto guidata da Amitrano e che scoppiò mentre il giovane rincasava, di ritorno dall’ospedale Santobono di Napoli, dove aveva trascorso l’intera giornata al capezzale della figlia. Secondo il piano ordito da Tonino ‘o sicco, l’ordigno sarebbe stato attivato il giorno seguente, quando il boss Vincenzo Sarno si sarebbe recato in commissariato a firmare, come ogni domenica. Di fatto, quello fu il primo attentato con autobomba compiuto in Campania, negli anni successivi alle stragi ordite dalla mafia siciliana.  

La morte di Luigi Amitrano sancì il punto di non ritorno.

A partire da quel momento, ebbe inizio una vera e propria mattanza. In primis, andarono in scena i “delitti satellite”, chiesti espressamente dai Sarno agli alleati del clan Fusco-Ponticelli perché dimostrassero con i fatti di essere nemici dei De Luca Bossa. In questo scenario si collocano gli omicidi di Daniele Rosario Troise “Topogigio”, il cui corpo fu smembrato e sciolto nell’acido, ma anche gli omicidi di Giuseppe Mignano e Giorgio Tranquilli, gli scissionisti dei Sarno che hanno pagato con la vita l’atto di fedeltà manifestato ad Antonio De Luca Bossa.  

Fabio Caruana, invece, fu ucciso perché aveva lasciato la moglie, una nipote dei Sarno, e si era fidanzato con l’ex compagna del boss Bernardino Formicola. Vennero scelti dei sicari inesperti che però non avevano restituito alla vittima prescelta un prestito di cinquantamila euro e quindi avevano una forte motivazione di carattere personale per ucciderlo. 

E poi ci sono le morti ordinate per impedire ad alcuni affiliati di collaborare con la giustizia. Il clan Sarno prevedeva infatti la condanna a morte per i pentiti e aspiranti tali. Non bastava ucciderli: quegli efferati omicidi dovevano fungere da monito per gli altri sodali, affinché fosse chiaro a tutti quale fosse il destino al quale erano destinati ad andare incontro gli affiliati infedeli, “gli infami”, i confidenti delle forze dell’ordine e coloro che bramavano di pentirsi. Prima sottoposti a veri e propri interrogatori, torturati e massacrati senza pietà, infine uccisi e i loro cadaveri sono andati incontro a diversi, ma ugualmente agghiaccianti, destini.  

Come il giovane Mario Scala, prettamente dedito alla vendita di eroina per conto del clan: Il tronco, le braccia e altre parti del cadavere furono trovate carbonizzate ’94 e dissipati in diversi contenitori per la raccolta dei rifiuti a Varcaturo. Il cadavere era irriconoscibile, tant’è vero che prima che dell’esame autoptico, si pensava che appartenesse ad una donna. Scala, prima di essere assassinato, venne ‘interrogato’ e sottoposto a terribili torture per svelare i contenuti della sua collaborazione con la giustizia, dopo che gli fu trovato in tasca un biglietto sul quale era riportato il numero di telefono di un poliziotto. 
 
Anna Sodano quel percorso lo aveva già intrapreso ed era già sotto la tutela dello Stato quando il 29 gennaio del ’98 scomparve dall’hotel di Napoli nel quale soggiornava, in attesa di essere trasferita in una località protetta. Anna Sodano fu attirata in un tranello da un’amica di cui si fidava, “la pazzignana” Luisa De Stefano, poi diventata figura di primo ordine della malavita locale e probabilmente ignara delle reali intenzioni del boss Vincenzo Sarno.  
La giovane, come Mario Scala, era dedita allo spaccio di stupefacenti, sposata con Gennaro Busiello affiliato al clan Sarno, sognava una vita migliore, diversa, lontana dalle brutture della camorra, per lei e per i suoi bambini. Il boss le promise che se avesse rinunciato a collaborare con la giustizia, il clan avrebbe provveduto a finanziare il suo sogno di una vita normale, procurandole un alloggio lontano da Napoli e facendosi carico del mantenimento suo e dei suoi figli. Quando tornò nel rione De Gasperi, attirata in quel tranello, la giovane fu interrogata e torturata, infine uccisa. Il suo corpo non è stato mai ritrovato. 
Il suo compagno, Gennaro Busiello fu ucciso a Napoli il 18 marzo del 2000 con quattro colpi di pistola calibro 7,65 per impedirgli di collaborare con la giustizia e vendicare così la morte di sua moglie consegnando alla giustizia i suoi aguzzini.   
L’omicidio di Giuseppe Schisa fu appoggiato e condiviso dal fratello Roberto, marito di Luisa De Stefano, per fornire una concreta prova di fedeltà al clan Sarno.  

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