Pulcinella è un simbolo, un frammento vivente di una Napoli eterna, indomita, sospesa tra il tragico e il comico. La sua storia si intreccia con quella della commedia dell’arte, un teatro che parlava a tutti, senza bisogno di traduzioni ed era amato e seguito come oggi accade a Bizzo Casino, semplice e alla portata di tutti. Pulcinella nasce per strada, tra le pieghe delle risate improvvisate e del sudore di chi, con il teatro, cercava di guadagnarsi il pane. Per capirlo davvero, però, dobbiamo fare un passo indietro, immergendoci nel cuore della commedia dell’arte.
La Commedia dell’arte: Un teatro senza tempo
La commedia dell’arte nacque nel Cinquecento, in Italia, come una ribellione gioiosa. Mentre le corti dei potenti celebravano tragedie e poemi epici, nelle piazze prendeva vita un teatro diverso, fatto di improvvisazione e maschere. Era un teatro del popolo e per il popolo, dove ogni gesto, ogni battuta, veniva concepita per strappare una risata, ma anche per stimolare una riflessione. Le compagnie di commedianti, spesso itineranti, portavano i loro spettacoli ovunque: da Venezia a Napoli, da Firenze a Roma. Gli attori, protetti dalle loro maschere, interpretavano personaggi universali: il vecchio avaro, il servo furbo, l’amante disperato. La maschera era tutto. Dietro quel pezzo di cuoio dipinto si nascondeva un mondo di libertà, un codice segreto che permetteva agli attori di osare ciò che nella vita reale sarebbe stato impensabile. Fu in quell’energia ribollente, in un teatro fatto di voci, gesti e improvvisazioni, che prese vita Pulcinella. Eppure, mentre altre maschere come Pantalone o Arlecchino si limitavano a incasellare ruoli fissi, lui sfuggiva, scivolava via dalle definizioni. Non era solo il furbo, non solo il buffone: era tutto e niente, insieme. Un personaggio che faceva ridere, certo, ma con un retrogusto amaro. Dietro quella comicità scanzonata, Pulcinella nascondeva una verità cruda, lacerante: l’umanità nella sua forma più nuda, senza veli o finzioni.
Pulcinella: la voce di Napoli
Non poteva che appartenere a Napoli. Una città che non si spiega, si vive. Tra il frastuono dei mercati, le ombre dei vicoli, i colori sgargianti dei panni stesi al vento, è lì che Pulcinella trova la sua casa. È un figlio di quella terra dove il riso si mescola al pianto, dove ogni angolo è un teatro e ogni parola un atto d’improvvisazione. Napoli non racconta storie semplici, e Pulcinella, suo specchio fedele, non poteva essere da meno. Il suo volto, sormontato da un naso lungo e arcuato, sembra scolpito da un artista in preda al delirio. Quella maschera bianca non è solo un accessorio, è un manifesto. Gli occhi? Due fessure che nascondono un misto di furbizia e candore. Ma è il suo spirito che lega Pulcinella alla città. Sopravvive. Cade, si rialza. Non vince mai davvero, ma nemmeno perde del tutto. Non è un eroe, ma neppure un fallito. Si muove sul filo della precarietà, come Napoli stessa, sempre in bilico tra grandezza e disastro. E dietro ogni risata c’è una malinconia palpabile. Non è un clown, Pulcinella, e non è mai solo divertimento. C’è una profondità nelle sue battute, un’eco che sa di fatica e di lotta. Come poteva non diventare il simbolo di una città che non si arrende? Napoli respira caos e armonia, canta e urla, e Pulcinella è il suo alter ego perfetto. È inafferrabile, si adatta, cambia pelle a seconda del momento. Eppure, non tradisce mai sé stesso. Con i suoi lazzi e giochi di parole, svela le crepe del potere, le ipocrisie di chi comanda. È un servo che deride il padrone. La commedia dell’arte, attraverso di lui, dava voce a chi non ne aveva. Ogni volta che appare in scena, è impossibile non riconoscersi in lui. Ci parla delle nostre debolezze, delle nostre cadute, ma anche della nostra capacità di andare avanti. Sempre. Anche quando tutto sembra perduto. Perché Pulcinella è questo: un inno alla sopravvivenza. Un eco della Napoli più vera, che con lui ride, piange e, soprattutto, non smette mai di vivere.