Il long-term project “La Città Invisibile” del fotografo della periferia orientale di Napoli Paolo Manzo, dopo aver ricevuto il prestigioso premio Pierre&Alexandra Boulat nel 2023, sarà esposto, fino al 15 settembre, alla Eglise Des Dominicains, nel corso della 36a edizione di Visa Pour L’Image a Perpignan, in Francia.
Nato e cresciuto a Volla, comune vesuviano al confine con la periferia orientale di Napoli, puntando l’obiettivo sulle realtà di quei territori, Paolo Manzo ha acceso un riflettore su uno squarcio sociale, storicamente relegato ai margini dei dibattiti politici e che raramente ha trovato spazio nelle agende di governo. Una realtà che il fotografo racconta e continua a raccontare senza pregiudizi o sensazionalismi, cercando sempre di cogliere l’autentica essenza del soggetto collocato davanti all’obiettivo, poco importa che sia una persona, un paesaggio, un cadavere o un oggetto. I suoi scatti hanno un’anima, un’identità, racchiudono e raccontano un dramma urlato in silenzio e rigorosamente in bianco e in nero, per consentire di scorgere le infinite sfumature che albergano in quelle realtà, anche agli occhi meno capaci di percepire i dettagli. Un punto di vista con il quale è impossibile non entrare in empatia e che ha saputo attirare persino l’attenzione degli sguardi più assopiti e assenti, riuscendo a conquistare finanche la ribalta internazionale.
Quelle stesse periferie-ghetto che cinturano il cuore della città di Napoli, grazie al talento di un ragazzo di periferia, conquistano un pulpito autorevole dal quale esibire tutta la disperata desolazione che alberga nelle terre di nessuno, dimenticate dallo Stato e saccheggiate dalla camorra. “Seppure sia nato e cresciuto a Volla, – racconta il fotografo Poalo Manzo – mi reputo figlio di queste periferie, specialmente quella della zona est, dove tuttora vivo. È qui che ho frequentato la scuola e ho creato il mio gruppo di amici. Non mi sento cittadino di un luogo, ma figlio di una periferia.”
Quella per la fotografia è una passione indotta dai familiari, in quanto nipote di fotografi di cerimonie. Paolo inizia quindi a cimentarsi con la macchina fotografica all’età di 10 anni, dando il via alla classica gavetta, muovendo i primi passi nelle vesti di assistente fotografo e bazzicando negli studi fotografici. Poi, è scoccata la scintilla che ha conferito un’impronta diversa a quella che è diventata la sua professione.
“Ho sentito il bisogno di dare un approccio giornalistico al mio lavoro e cercare di fare in modo che le mie foto fossero utili alla comunità in cui vivo, quando mi capitava, in auto con mio padre, di attraversare queste periferie dalle sopraelevate delle strade statali che le sovrastano e che collegano la periferia a Napoli e viceversa. Avvertivo di essere circondato da tanti agglomerati di cemento, i celebri rioni popolari e davanti a quegli scenari mi chiedevo molte volte se la gente che abitava in quei luoghi vivesse gli stessi problemi della mia famiglia: difficoltà economiche e socioculturali, disabilità, ma anche la forza di andare avanti per cercare di garantire un futuro migliore ai figli. Quello è stato il punto d’inizio di questa “missione” che intendo portare avanti “finché morte non mi separi” da questa terra. Continuerò a sviluppare questo progetto sulle periferie di Napoli per non interrompere questa perenne scoperta. Ogni giorno scopro qualcosa, ormai da 20 anni. Oggi sono stato a Scampia e ho scoperto meglio questo luogo che già conoscevo, una struttura alberghiera o ospedaliera abbandonata, dove da decenni vivono delle famiglie. In auto, a piedi, per strada, ogni giorno scopro qualcosa e ciò mi porta ad affrontare questo progetto con una visione molto più ampia e a lungo termine. La mia speranza è di poter fotografare i cambiamenti di questi luoghi, un giorno. Forse quando arriverà quel momento, darò una piega diversa a questo lavoro.”
Cosa racconta questo progetto?
Le problematiche socioculturali di un territorio martorizzato dall’assenza delle istituzioni e di strutture dignitose, ma anche dall’imponenza della camorra e della criminalità. Io non fotografo il camorrista, ma le conseguenze che scaturiscono dall’esistenza della camorra, sia da parte di chi ritiene di essere nel giusto, sia da parte di chi ancora non è consapevole di vivere in un contesto disagiato e problematico: entrambe le parti sono conseguenze di quel male chiamato criminalità. Fotografare entrambe le cose, mi consente di dare un’identità alle vittime di un sistema che cammina a braccetto con la politica, oggi come in passato. La criminalità, tutto quello che è illecito, ricoprono un ruolo predominante nelle periferie ed io racconto le conseguenze di questa realtà. L’assenza del lavoro, l’abusivismo edilizio, il sistema scolastico e le sue tante falle, la dispersione scolastica, tutte quelle problematiche che messe insieme danno forma a un lavoro del genere.”
Quali sono le principali difficoltà che hai fronteggiato?
Non è facile entrare nelle vite delle persone per raccontarle, soprattutto quando si tratta di realtà tanto complesse. Così come non è facile compenetrarsi in quel tessuto sociale e digerire le ingiustizie che tocchi con mano. Mi ritengo privilegiato, perché sto documentando realtà che vivendo la strada e contesti simili a quello dove sono cresciuto e gli stessi luoghi in cui sono cresciuto, non devo affrontare le difficoltà che potrebbero penalizzare un fotografo che non vive in questo contesto. Il tempo mi dà le risposte e i risultati che cerco e posso godere del vantaggio di poter tornare più volte nei luoghi e sulle storie che racconto per cogliere nuove sfumature o altri aspetti e così, con il tempo, posso tracciare la linea che disegna l’espressione della storia che sto raccontando.
In che modo questo lavoro ti arricchisce?
Mi ha fatto crescere, è stata un’autentica esperienza di vita e continua ad esserlo. Mi consente di sviluppare una lettura cruda e aggiornata di un tessuto sociale, quindi la ritengo anche un’esperienza formativa. Una mia amica mi ha detto che quello che racconto attraverso le foto, lei lo studia all’università. La strada, questi contesti, sono altamente formativi sotto l’aspetto dell’analisi del territorio, consentono di sviluppare un punto di lettura degli atteggiamenti sociali: una serie di esperienze che ti portano a crescere e ad accrescere la tua preparazione. La macchina fotografica per me è un oggetto magico che mi spinge ad entrare in contatto con contesti che senza di lei non avrei mai scorto e mi sprona a cercare un rapporto tra me e chi fotografo.
Cosa ha significato portare questo lavoro oltre i confini nazionali?
Come ho detto durante un’intervista che ho rilasciato lì in Francia, ho ricevuto un’opportunità non personale, ma lavorativa per far conoscere il dolore e le problematiche che esistono in questa città. Ho avuto la possibilità di gridare il mio messaggio al mondo ed è stato importante, non solo per me, ma anche per la gente che racconto in quegli scatti e che vive in quei luoghi che diversamente non potrebbe valicare quei confini, perché non ne ha le possibilità.
In che modo speri che questo progetto possa portare riscatto?
In qualsiasi modo possibile, purché ci sia un cambiamento. Mi auguro di cambiare anch’io insieme a questa comunità per vedere dove ci porta questo percorso che ho iniziato ormai 20 anni fa. Se sono riuscito a fare qualcosa di utile per questa comunità, spero che ciò si traduca in un cambiamento tangibile che potrò vedere con i miei occhi e, soprattutto, fotografare.