Quello in cui perse la vita Annunziata D’Amico, la donna-boss del rione Conocal di Ponticelli, fu un agguato clamoroso, non solo perché la camorra entrò in azione per uccidere una donna, seppure ricoprisse il ruolo di reggente del clan di famiglia, ma anche per una serie di dinamiche strettamente correlate a quel delitto eccellente che di fatto sancì la supremazia dei De Micco, gli acerrimi rivali con i quali il clan capeggiato dalla 40enne, madre di sei figli, era entrato in contrasto per il controllo degli affari illeciti, le piazze di droga, in primis.
La notizia della morte di Nunzia D’Amico fu accolta con rabbia e disperazione dagli uomini di casa D’Amico reclusi in carcere: il marito, il suo primogenito dal quale si era recata proprio quella mattina e rientrando a casa fu raggiunta dal killer che l’ha uccisa e soprattutto i fratelli, Antonio e Giuseppe, i boss fondatori del clan D’Amico, i cosiddetti “frauella” originari del centro storico di Napoli, giunti nel parco Conocal di Ponticelli dopo il terremoto del 1980.
Uccidendo Annunziata D’Amico i De Micco rinnegarono una regola d’oro del codice d’onore mafioso: “donne e bambini non si toccano”, ma non solo per questo “i fraulella” patirono malamente il pesante colpo incassato. La donna fu raggiunta dal killer – che sappiamo essere Antonio De Martino – nel cuore del Conocal, il “suo” rione, roccaforte del clan di famiglia. Quel sabato mattina, il 10 ottobre del 2015, rientrava dal colloquio sostenuto in carcere con il suo primogenito e si trattenne sotto casa a chiacchierare con alcuni conoscenti che gli avevano chiesto notizie del figlio. Il killer si materializzò in un lampo e nonostante la donna cercò riparo tra le auto in sosta, fu raggiunta e uccisa. E’ morta da boss, Annunziata D’Amico, assassinata come un vero boss, mentre serviva la camorra fino all’ultimo istante, chiedendo al killer di togliere il passamontagna per consentirle di guardare il volto del suo assassino mentre la uccideva.
Uno dei tanti macabri dettagli legati a un delitto che ha sancito un punto di non ritorno nell’ambito del contesto malavitoso ponticellese e che appare tuttora destinato a sortire delle conseguenze in un futuro sempre più prossimo.
A destare allarmismo in casa D’Amico, nei giorni successivi all’omicidio, fu soprattutto la consapevolezza che il segnale che ha consentito al killer di entrare in azione giunse proprio dal Conocal, quella stessa roccaforte in cui la donna-boss si era rintanata quando era entrata in contrasto con i De Micco e che era restia a lasciare, proprio perchè consapevole di essere finita nel mirino dei rivali. Quello stesso bunker che ha difeso, a costo della vita, perché doveva essere controllato dalla sua famiglia/clan. “La passillona” mal tollerava le incursioni dei rivali e meno che mai poteva accettare che sul suo fortino sventolasse la bandiera dei “bodo”. Non solo per questo motivo, l’ipotesi che sia stata “venduta” ai rivali e gettata in pasto alla morte da una fonte interna, un abitante del Conocal, concorse ad accrescere rabbia e apprensione. Il clima si fece teso e incerto soprattutto perché tutti gli indizi facevano convergere dubbi e sospetti su un membro della stessa famiglia D’Amico: una delle sorelle Scarallo, famiglia d’appartenenza della moglie del boss Antonio D’Amico.
In quel periodo storico, la sua relazione con una figura apicale del clan De Micco era di dominio pubblico nel rione Conocal. L’uomo era solito pernottare anche a casa sua, nel cuore del fortino del clan con il quale la sua organizzazione camorristica era entrata in conflitto per conquistare il controllo del territorio e degli affari illeciti. Negli anni che seguirono il pentimento dei Sarno, si erano avvicendate diverse azioni di sangue, entrambe le compagini avevano già fatto i conti con gli omicidi di affiliati e quando giunse il momento della resa dei conti, il ras dei De Micco ebbe modo di intercettare le mosse della donna-boss anzitempo, godendo di una postazione privilegiata.
Per otto anni, dentro e fuori le aule di tribunale, la dinamica dell’agguato è stata oggetto di un lungo dibattito, per via del fatto che quel sabato mattina, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per sostenere un colloquio con il figlio detenuto, non c’era solo Annunziata D’Amico, ma anche Carmela Ricci, moglie di Francesco De Martino, insieme a suo figlio Antonio, esecutore materiale dell’omicidio della donna-boss del Conocal. I due erano andati a far visita a Giuseppe De Martino, secondogenito della Ricci e fratello di Antonio. La presenza di vittima e carnefice nello stesso luogo ha immediatamente lasciato dedurre agli inquirenti che De Martino abbia pianificato l’agguato una volta giunto nell’istituto penitenziario, quando si rese conto che la reggente del clan rivale aveva lasciato il suo bunker e che quindi doveva adoperarsi per ucciderla prima che rientrasse nel suo appartamento in via al chiaro di luna.
Nel rione Conocal, invece, fin dal primo istante, ha preso il sopravvento la consapevolezza che al killer, quando si era recato in carcere per sostenere il colloquio con il fratello, fosse già stata segnalata la presenza della donna, proprio perché il ras dei De Micco aveva avuto modo di apprendere in tempo reale la notizia, trovandosi poco distante dall’edificio in cui abitava “la passillona”.
Due fatti, in particolare, confermano quanto fosse concitato il clima che si respirava in casa D’Amico. In primis, l’apprensione del boss Antonio D’Amico che temeva anche per l’incolumità delle altre sorelle, allarmato dall’ipotesi che i De Micco potessero approfittare di quella circostanza propizia per cancellare ogni traccia della famiglia D’Amico in quel rione e appropriarsi di un altro fortino. Un fatto confermato anche da alcuni collaboratori di giustizia, seppure la dimostrazione più cruda ed esplicita del momento di difficoltà vissuto dalla famiglia D’Amico va ricercata nei pestaggi che andarono in scena nel rione Conocal. E non solo.
Alcune donne residenti in via al chiaro di luna furono selvaggiamente pestate in strada, accusate di aver “fatto la spiata” al killer che l’aveva assassinata. Un espediente necessario, in quel momento storico, proprio per scongiurare il pericolo di una carneficina, nel caso in cui i familiari avessero apertamente puntato il dito contro “la parente infedele”. Una violenza finalizzata anche a consegnare un monito esplicito ai residenti in zona: un invito all’omertà, affinché sulla vicenda calasse il silenzio. Almeno fino a quando un uomo di casa D’Amico non verrà scarcerato, così come deliberato nel corso di una riunione tra familiari e affiliati, avvenuta nei giorni successivi all’agguato per discutere strategie e direttive e soprattutto consultarsi in merito a una possibile replica. I D’Amico detenuti hanno espressamente richiesto che a vendicare Annunziata D’Amico fosse uno di loro, un uomo nelle cui vene scorre il sangue dei “fraulella”.
In questo clima maturò anche l’aggressione subita dalla direttrice di Napolitan.it, la giornalista Luciana Esposito, che aveva appreso da una delle cognate di Annunziata D’Amico una serie di dettagli legati all’omicidio, compresa la relazione tra una parente della boss e il ras dei De Micco. Non a caso, Mariarosaria Amato, la donna che aggredì la giornalista, dichiarò di aver agito perché indispettita dalle attenzioni che rivolgeva a suo marito. Qualora la direttrice di Napolitan.it avesse provveduto a rendere nota la relazione tra i due soggetti dei clan entrati in conflitto, la famiglia/clan D’Amico avrebbe prontamente gettato fango sull’attendibilità della notizia, accusandola di aver agito per vendetta.