«Sono detenuto per il reato di camorra e appartengo al clan De Micco. In un mio momento di debolezza mi avvicinai a Luigi De Micco e verso il 2015 decisi di mettermi al suo servizio: facevo l’autista. nel mentre riuscii a guadagnare la sua fiducia e per questo iniziò a parlare con me di omicidi e soprattutto mi prestai ad aiutare alla latitanza di Francesco De Bernardo e Flavio Salzano, che è morto».
Con queste parole Nunzio Daniele Montanino, uomo di fiducia del clan De Micco, ha ufficializzato la sua collaborazione con la giustizia.
Classe 1976, Nunzio Daniele Montanino, considerato “la faccia pulita” del clan De Micco, fu arrestato nel novembre del 2016, accusato di aver favorito la latitanza di Francesco De Bernardo, gravemente indiziato di aver violato la normativa sulle sostanza stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso, nonché responsabile del reato di falso materiale e sostituzione di persona, in quanto trovato in possesso di una patente di guida, i cui dati anagrafici appartenevano ad altra persona. Fu proprio Montanino ad aiutare De Bernardo a nascondersi in un appartamento a Marigliano, comune dell’entroterra vesuviano, collegato a filo doppio con la malavita ponticellese.
Le dichiarazioni rese dall’ex De Micco alla magistratura hanno concorso a ricostruire il clima di tensione che ha introdotto il blitz che il 28 novembre del 2017 ha fatto scattare le manette per 23 affiliati ai “Bodo”, infliggendo un durissimo colpo al clan. Un evento che soprattutto favorì l’ascesa del cartello costituito dalle vecchie famiglie camorristiche della periferia orientale di Napoli. I De Luca Bossa-Minichini-Casella, ma anche “le pazzignane”, gli Aprea di Barra e i Rinaldi di San Giovanni a Teduccio: l’alleanza che mirava a scalzare i De Micco da Ponticelli e i Mazzarella da San Giovanni a Teduccio per appropriarsi del controllo degli affari illeciti dell’intera periferia orientale di Napoli e che proprio nei mesi precedenti al blitz iniziò a palesare la sua presenza sul territorio. Per questo motivo, i De Micco erano intenzionati a colpire il cartello rivale, bramando di uccidere le fiugre apicali dell’organizzazione.
Uno scenario ricostruito da Montanino: il collaboratore racconta ai magistrati che il De Micco (Luigi De Micco, unico dei fratelli a piede libero in quel momento storico, ndr) temeva particolarmente “il cinese” alias Francesco Audino, figura camorristica autorevole e navigata, da tempo immemore legato ai De Luca Bossa e stimato essere un perno portante dell’alleanza. Malgrado in quel momento storico fosse Michele Minichini a mettersi in mostra compiendo “stese” e azioni eclatanti, ma anche omicidi eccellenti, come quello del boss dei Barbudos Raffaele Cepparulo, il reggente del clan egemone a Ponticelli aveva carpito che la figura da temere e da eliminare era Audino. Luigi De Micco considerava Michele Minichini “un moccosiello”. Ciononostante, era ferma intenzione del boss colpire anche Minichini. In sostanza, mirava a indebolire i rivali, privandoli delle pedine cruciali. Montanino rivela che “era disposto anche a buttargli una bomba in casa; cosa che non aveva ancora fatto solo per la presenza costante dei bambini presso l’abitazione del Minichini.” Montanino aggiunge che il boss conosceva tutte le abitudini e gli spostamenti di Minichini.
Due omicidi che non sarebbero stati eseguiti per motivi che prescindono dalla volontà del boss: i due, braccio armato e mente del clan, sono stati salvati proprio dal blitz che ha tradotto in carcere le figure apicali dei De Micco.
Un evento inaspettato che ha mandato in fumo i piani dei De Micco e che ha favorito l’ascesa dell’organizzazione rivale che di fatto, dopo quegli arresti, riuscì a conquistare il controllo del territorio senza particolari sforzi.