Il clan Fusco-Ponticelli, operante nel comune vesuviano di Cercola, al confine con il quartiere Ponticelli, nasce come costola del clan Sarno, capeggiata da due figure apicali: Gianfranco Ponticelli e Pasquale Fusco che hanno sempre usufruito del supporto dei familiari, soprattutto quando erano detenuti in carcere.
L’uso di metodi violenti e l’affermazione cruenta del potere criminale per rivendicare il controllo del territorio rappresentano le caratteristiche distintive dell’organizzazione. Un gruppo criminale che ha messo la firma su plurime azioni efferate e che di recente è tornato a conquistare le pagine dei giornali: la figlia del boss Gianfranco Ponticelli è finita in carcere, insieme ad altre sei persone, accusate di voto di scambio politico-mafioso. I fatti si sarebbero svolti in occasione delle ultime elezioni amministrative a Cercola, comune di residenza della famiglia Ponticelli dove il clan non ha mai smesso di operare. Malgrado l’interdizione dai pubblici uffici rimediata per reati mafiosi, la figlia del boss figurava nella lista dei candidati in corsa per una poltrona da consigliere comunale. Nell’ordinanza che ricostruisce minuziosamente gli illeciti orchestrati dagli esponenti della criminalità locale intenzionati a manipolare le elezioni, Antonietta Ponticelli, la figlia del boss, viene indicata come una persona perfettamente inserita negli affari di famiglia e che avrebbe ricoperto anche la figura di reggente del clan.
Una famiglia/clan che è riuscita a conquistare il controllo del comune di Cercola dopo aver affrontato non poche avversità e principalmente per merito delle gesta del boss Gianfranco Ponticelli.
Figura controversa, quella di Gianfranco Ponticelli, che agli albori della carriera criminale era dedito a svolgere piccoli lavori di manutenzione per il comune, seppure fosse già un abile rapinatore di tir. Proprio questa sua peculiare caratteristica attirò l’attenzione di Ciro Sarno, all’epoca affiliato alla Nuova Camorra Organizzata del boss Raffaele Cutolo. Proprio per compiere un furto di tir, colui che di lì a poco diventerà ‘o sindaco della camorra napoletana, assoldò Gianfranco Ponticelli e Antonio Maione alias Tonino di Casarea. I due superarono a pieni voti il banco di prova e a partire da quel momento confluirono prima nel clan capeggiato da ‘o professore e poi contribuirono a costituire lo zoccolo duro del clan Sarno, in seguito alla dissoluzione della NCO. Ponticelli ha trascorso la maggior parte della vita in carcere: già ai tempi in cui militava nel clan di Cutolo ha scontato lunghe pene.
Gianfranco Ponticelli ha saputo attirare su di sé le inimicizie degli alleati soprattutto per il doppiogioco che ha portato avanti in uno dei momenti storici più concitati della camorra vesuviana, quello che scaturì dall’attentato con autobomba in cui perse la vita Luigi Amitrano, giovane nipote e autista del boss Vincenzo Sarno. Era il 25 aprile del 1998 e quell’attentato – il primo compiuto con l’utilizzo di un’autobomba in Campania – fu pianificato da Antonio De Luca Bossa per annunciare in maniera plateale la scissione dai Sarno, uccidendo il boss Vincenzo Sarno, reggente del clan in quel momento storico. Tra sotterfugi, intrighi, accordi sottobanco e strategie, Ponticelli iniziò a destreggiarsi tra le due fazioni entrate in rotta di collisione, seppure la maggior parte degli affiliati al clan Sarno non si fidava di lui. In questo clima, nel periodo in cui la faida tra Sarno e De Luca Bossa era nel vivo, tra il 2003 e il 2004, Luciano Sarno diede ordine di sparare a Ponticelli per ridimensionarne le velleità, poiché era intenzionato a gestire autonomamente le estorsioni nei comuni di Cercola e San Sebastiano al Vesuvio.
In sostanza, i Fusco-Ponticelli, dopo una lunga militanza nel clan Sarno e un trascorso ambiguo durante la scissione tra questi ultimi e i De Luca Bossa, diventarono poi un gruppo autonomo operante a Cercola capeggiato proprio da Gianfranco Ponticelli. Uno degli aspetti che fin da subito ha funto da campanello d’allarme per i Sarno era la disinvoltura con la quale i De Luca Bossa erano soliti frequentare il comune di Cercola dopo la scissione, probabilmente consapevoli di marcare un territorio amico nel quale non avrebbero corso pericoli.
Tuttavia, i rapporti tra i Sarno e Gianfranco Ponticelli si rompono bruscamente per un motivo ben preciso, secondo quanto riferisce il collaboratore di giustizia Carmine Caniello, ex Sarno, quando alcuni affiliati si appropriano del controllo del comune di Cercola, dividendo a metà i proventi illeciti con i Sarno, estromettendo di fatto, seppure fino a quel momento ricopriva il ruolo di capozona che. Dal suo canto, per quanto amareggiato, non poteva fare nulla per riappropriarsi del territorio, in quanto detenuto. Proprio per questo motivo, quando fu scarcerato, strinse un accordo con Tonino ‘o sicco, contestualmente alla sua decisione di entrare in rotta con i Sarno. Lo stesso Caniello rivela che in questo clima, lui e Salvatore Casella detto “paglianone”, avevano intenzione di ucciderlo perchè in quel momento storico in cui tutti i fratelli Sarno erano detenuti, ricoprivano il ruolo di reggenti del clan. Quella sentenza di morte fu stralciata quando fu scarcerato Luciano Sarno che rivelò ai suoi di non aver mai smesso di essere in contatto con Ponticelli e che quello che aveva stretto con i rivali era un accordo di convenienza, voluto solo per uccidere Daniele Troise, affiliato al clan De Luca Bossa che sparlava di Ponticelli, accusandolo di essere l’autore dell’omicidio di un vecchio camorrista di Cercola. Anche i Sarno avevano interesse ad eliminare Troise, stimato essere uno dei gregari più validi della cosca rivale, nonché artefice della maggior parte delle azioni di fuoco subite dai Sarno dopo la scissione di Tonino ‘o sicco. E’ proprio Luciano Sarno a rivelare ai suoi di aver ricevuto una promessa da parte di Gianfranco Ponticelli: si era impegnato ad uccidere Troise, ma anche Giuseppe Mignano, braccio destro di Antonio De Luca Bossa.
Gianfranco Ponticelli uccise Daniele Troise e dopo ha sciolto il suo cadavere nell’acido, fece ritrovare la sua auto fuori zona. Giuseppe Mignano, invece, fu ucciso nella sua abitazione, nel Lotto O di Ponticelli, fortino del clan De Luca Bossa. Sul suo cadavere, i killer lasciarono delle banconote in forma di disprezzo.
Fu Gianfranco Ponticelli a decretare anche la morte di un suo affiliato, Vincenzo Gonzales, reo di un ammanco di cinquantamila euro dalla cassa del clan.
Ad incrinare definitivamente i rapporti tra i Sarno e Gianfranco Ponticelli concorre la politica introdotta da Vincenzo Sarno quando assume la reggenza del clan e si appropria di San Sebastiano al Vesuvio, rifiutando persino di dividere i proventi delle attività illecite con gli altri fratelli, asserendo che quel comune fosse suo, a discapito di Gianfranco Ponticelli che aveva sempre operato in quella zona.
Questo il clima che ha introdotto la fine dell’era camorristica più longeva della storia della periferia orientale di Napoli e maturata per espresso volere dei fratelli Sarno, un tempo boss di Ponticelli, oggi collaboratori di giustizia che con le loro dichiarazioni hanno concorso a condannare al carcere a vita anche Gianfranco Ponticelli che, malgrado il vincolo di parentela con un “pentito eccellente” della camorra napoletana, in passato era riuscito a non compromettere in maniera irrecuperabile la sua posizione.
La moglie di Gianfranco Ponticelli è infatti la sorella della moglie di Mario Incarnato, referente della NCo di Cutolo a Ponticelli, ma anche uno dei primi pentiti della storia della camorra napoletana, tra i responsabili dell’omicidio del vicedirettore del carcere di Poggioreale Giuseppe Salvia, ma anche uno dei principali accusatori di Tortora e il regista che ebbe un ruolo chiave nel determinare la confessione di Carmine Mastrillo che indicò tre ragazzi incensurati come gli autori del “massacro di Ponticelli”, il duplice omicidio di due bambine di 7 e 10 anni, avvenuto nel 1983 nel rione Incis di Ponticelli. Tra i tanti verbali che contengono le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia emerge nitidamente lo status di gregario di Gianfranco Ponticelli che continua a eseguire gli ordini di Incarnato, anche mentre il referente ponticellese della NCO si trova ristretto in carcere.
Nella fattispecie, quando si pente, Incarnato “dimentica” di rivelare agli inquirenti di aver commissionato “una lezione” a un meccanico proprio a suo cognato, Gianfranco Ponticelli che però si fece prendere la mano e uccise quell’uomo. Un omicidio che Incarnato non ha mai menzionato agli inquirenti, forse proprio per “graziare” Ponticelli ed evitargli un ergastolo che, tuttavia, ha solo ritardato.