Rispolverato di recente un tema che in Italia non ha mai trovato ampio spazio: l’ipotesi di consentire alle persone detenute di avere rapporti sessuali. L’ultimo tentativo per modificare la situazione risale al 2020, quando alla Commissione giustizia del Senato venne sottoposto il disegno di legge numero 1876 per introdurre e regolare le relazioni affettive e sessuali dentro gli istituti penitenziari: prevede il diritto all’affettività e una visita prolungata al mese, in apposite unità abitative, senza controlli audio o video. Il testo era stato scritto nel 2019 dalla Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà ed era stato poi sottoposto ai consigli regionali perché lo portassero in Parlamento, cosa che decise di fare la Toscana. Il disegno di legge si trova ancora in Commissione e il diritto alla sessualità nelle carceri non è stato ancora garantito: è una questione molto seria, aperta ormai da vent’anni, che rimanda a principi costituzionali e su cui ci sono pronunce autorevoli sia a livello nazionale che europeo.
Negli anni sono stati presentati vari progetti di legge in merito sia alla Camera sia al Senato, ma nessuno ha mai avuto seguito. Anche per questa radicata resistenza, numerosi esperti parlano di una «silente, ma indiscutibilmente consapevole, volontà del legislatore tesa a impedire l’emersione del diritto» o di un «dispositivo proibizionista» efficace e operante da sempre.
Il principale strumento per mantenere i rapporti affettivi in presenza sono i colloqui: hanno però un tempo ridotto, di regola un’ora, e si svolgono spesso in sale affollate e rumorose, dove non è garantita la riservatezza e dove è vietato qualsiasi gesto affettuoso. La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha specificato che i locali destinati ai colloqui dovrebbero favorire «ove possibile, una dimensione riservata» ma la legge prevede ancora che sia obbligatorio e inderogabile il controllo a vista da parte degli agenti di custodia, per ragioni di sicurezza, e la gran parte delle strutture è completamente inadeguata in questo senso.
La legge del 1975 prevede che per «coltivare interessi affettivi» siano concessi dei permessi premio in cui le persone detenute possono trascorrere un breve periodo a casa (non vengono però dati con facilità e riguardano una quota minoritaria di persone). La soluzione al problema della sessualità verrebbe quindi trovata in eventuali parentesi fuori dal carcere. In uno studio spesso citato sul tema, il giurista Andrea Pugiotto scrive che la sessualità è l’unico aspetto della vita dentro il carcere che non è oggetto di una esplicita disciplina, legislativa o regolamentare: non esiste insomma una norma che tratti l’argomento. Pugiotto sostiene che questo produca «diversi e profondi strappi al tessuto costituzionale»: ai diritti inviolabili della persona umana (articolo 2), al diritto al mantenimento dei rapporti affettivi e familiari (articoli 29, 30, 31), alla tutela della salute psicofisica (articolo 32) e al principio della finalità rieducativa della pena e ai suoi principi di umanità (articolo 27).
La riforma penitenziaria del 1975 fu molto importante: sostituì definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931 e i principi che lo ispiravano. Il carcere passò dall’essere un sistema basato esclusivamente su punizioni, privazioni e sofferenze all’avere – sulla carta – finalità rieducative e risocializzanti, ovvero dedicate a produrre un risultato favorevole al bene dei singoli e della comunità, come era già scritto nella costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Nel 2012, alcuni detenuti dal carcere di Carinola, in provincia di Caserta, spiegarono in un documento che solo dopo una riflessione sulle finalità della pena si poteva esprimere un giudizio obiettivo sulla questione dell’affettività e della sessualità dentro il carcere: “Se la pena ha solo una funzione punitiva e retributiva, allora ci sta tutto: privazioni, sofferenze, tortura, castigo e supplizio. Se invece, le finalità che la costituzione assegna alla pena sono da un lato quella di prevenzione generale e di difesa sociale […] e dall’altro quella di prevenzione speciale e di risocializzazione sociale del reo, allora l’affettività in carcere è uno degli elementi fondamentali del trattamento rieducativo.”
Il sesso in carcere è una previsione inutile e demagogica, anche in termini di sicurezza stessa del sistema.
Si introduca piuttosto il principio di favorire il ricorso alla concessione di permessi premio a quei detenuti che in carcere si comportano bene, che non si rendono cioè protagonisti di eventi critici durante la detenzione e che lavorano e seguano percorsi concreti di rieducazione.
E allora, una volta fuori, potranno esprimere l’affettività come meglio credono”. Lo afferma Donato Capece, segretario generale del SAPPE, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, commentando sentenza n. 10 datata 2024 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia.
“Certo fa riflettere il fatto che, in una situazione penitenziaria nazionale endemicamente complessa in cui anche gli interventi di edilizia sono assai contenuti, assuma priorità la previsione di destinare stanze o celle per favorire il sesso ai detenuti”, prosegue il leader del SAPPE.
E, ancora: “i nostri penitenziari non possono e non devono diventare postriboli così come i nostri Agenti di Polizia Penitenziaria non devono diventare ‘guardoni di Stato”.
Per il primo Sindacato del Corpo altri sarebbero gli interventi urgenti per fronteggiare la costante situazione di tensione che si vive nelle carceri italiane.
“Si potrebbe ipotizzare un nuovo sistema penitenziario articolato su tre livelli.”
“Il primo, per i reati meno gravi con una pena detentiva non superiore ai 3 anni, caratterizzato da pene alternative al carcere, quale è l’istituto della “messa alla prova.”
“Il secondo livello è quello che riguarda le pene detentive superiori ai 3 anni, che inevitabilmente dovranno essere espiate in carcere, ma in istituti molto meno affollati per lo sgravio conseguente all’operatività del primo livello e per una notevole riduzione dell’utilizzo della custodia cautelare.”
“Il terzo livello, infine, è quello della massima sicurezza, in cui il contenimento in carcere è l’obiettivo prioritario”, conclude il leader del SAPPE.”
“Nell’ambito delle prospettive future occorre dunque che lo Stato, pur mantenendo la rilevanza penale, indichi le condotte per le quali non è necessario il carcere, ipotizzando sanzioni diverse, ridisegnando in un certo senso l’intero sistema, anche perché il sovraffollamento impedisce di fatto la separazione dei detenuti.
E la Polizia penitenziaria, che riteniamo debba connotarsi sempre più come Polizia dell’esecuzione penale oltreché di prevenzione e di sicurezza per i compiti istituzionali ad essa affidati dall’ordinamento, è sicuramente quella propriamente deputata al controllo dei soggetti ammessi alle misure alternative”.