“Mia mamma si chiama Luisa De Stefano ed è uno dei capi del clan Minichini-Schisa-De Luca-Bossa”: inizia così uno dei tanti verbali in cui sono riportate le dichiarazioni di Tommaso Schisa, uno dei protagonisti dell’alleanza tra i vecchi clan dell’ala orientale di Napoli, rimaneggiati e impoveriti dal vortice di arresti che sancì la fine dell’era dei Sarno. Tra le figure apicali finite in manette e condannate al carcere a vita, spicca proprio il nome di suo padre Roberto Schisa che ha incassato il fine pena mai per aver partecipato alla “strage del Sayonara”. Superati gli anni più critici, il clan capeggiato dalla madre di Tommaso Schisa, decise di fare fronte comune con le altre organizzazioni reduci dallo stesso momento di difficoltà. Anche i Minichini e i De Luca Bossa erano ormai costituiti dai superstiti: figli, fratelli dei camorristi che avevano marcato quella stessa scena camorristica fino ai primi anni del 2000. Tommaso Schisa è uno spettatore privilegiato che anche quando non partecipa attivamente alle dinamiche del clan viene costantemente aggiornato dalla madre. Motivo per il quale la sua decisione di collaborare con la giustizia è stata temuta ed osteggiata fin dal primo istante.
Le sue dichiarazioni sono puntualmente inserite nelle ordinanze di custodia cautelare degli ultimi anni che riguardano i clan attivi nella periferia orientale di Napoli dell’entroterra vesuviano, a riprova del prezioso contributo che ha fornito alla magistratura. Anche nella ricostruzione delle gerarchie e delle dinamiche che hanno contraddistinto il clan D’Ambrosio radicato a Cercola, Schisa ha fornito un supporto importante, soprattutto perchè quell’organizzazione rappresentava una ramificazione nel comune di Cercola del clan nel quale la sua famiglia ricopriva un ruolo di primo ordine.
Schisa conferma il ruolo del reggente del clan, Roberto D’Ambrosio: “Si occupava sulle zone di Cercola e Caravita di estorsioni e vendita di droga. Il 50% dei proventi derivanti dall’attività illecita confluivano nelle casse dell’organizzazione. Voglio precisare che il D’Ambrosio è stipendiato dalla nostra organizzazione.”
Il giovane collaboratore rivela di aver avuto un’intensa frequentazione in carcere con Roberto D’Ambrosio e uno dei sui affiliati più fidati, Fiorentino Eduardo Mammoliti. Proprio in quella circostanza ha quindi avuto modo di apprendere dalla voce dei diretti interessati una serie di fatti che li riguardavano. I due, quando erano detenuti nel carcere di Secondigliano, gli raccontarono di aver commesso il tentato omicidio di un uomo a Sant’Anastasia.
Un agguato, secondo quanto riferito da Schisa, voluto per palesare la volontà di D’Ambrosio di conquistare il controllo del comune vesuviano di Sant’Anastasia. Dopo l’agguato il ragazzo lasciò il paese.
“Dopo questo agguato, – dichiara Schisa – noi del clan abbiamo effettuato una stesa nel comune di Sant’Anastasia, unitamente a D’Ambrosio e agli uomini di quest’ultimo, allo scopo di dimostrare a tutti che avevamo preso Sant’Anastasia e che c’era un’alleanza tra D’Ambrosio ed il nostro clan. Furono picchiati tutti, spacciatori, commercianti ed altri. Dopo questa stesa D’Ambrosio ha preso il comando anche di Sant’Anastasia, sia in termini di estorsioni che di stupefacenti. Sulle attività illecite di Sant’Anastasia, D’Ambrosio versava mille euro al mese a Cirillino, padre di Michele Minichini.”
Le rivelazioni di Schisa concorrono a ricostruire diversi episodi: “Fiore già frequentava il nostro gruppo prima dell’arresto dei De Micco, tant’è che con Michele Minichini organizzò anche un agguato ad un uomo dei Bodo, chiamato O’ gemello, nei presi della villa comunale a Ponticelli. Costui si accorse dell’azione e riuscì a scappare via. All’epoca io ero detenuto e Fiore frequentava Minichini, nonché mia madre, mia cugina Vincenza Maione e Gabriella Onesto.”
Numerosi elementi confermano lo spessore criminale che D’Ambrosio era riuscito a conquistare in pochissimo tempo: “qualche mese dopo l’arresto dei Bodo, ci fu un summit nella Case Gialle di Barra. All’epoca io ero detenuto.
A questo summit hanno partecipato il Cinese, Michele e Alfredo Minichini e altri. Se non sbaglio era presente anche il Nonno del clan Aprea. Il motivo del summit era la spartizione degli affari illeciti nelle zone controllate dall’organizzazione. Intervennero le forze dell’ordine.
Nell’occasione vi erano un Transalp intestato a mia mamma, nonché una Mercedes blindata che i Minichini avevano avuto proprio da Roberto D’Ambrosio, il quale l’aveva avuta da un commerciante di San Sebastiano. So per certo che questa autovettura non è stata mai pagata. Immagino che si sia trattato, anche in questo caso, di una estorsione.
Sul conto di D’Ambrosio e Fiore posso riferire che gli stessi hanno collocato una bomba nel Comune di Cercola, nei pressi di una palestra, per costringere il titolare a pagare il pizzo.
Il fatto si è verificato quando ero detenuto e prima che gli stessi fossero arrestati per estorsione. Per come entrambi mi hanno riferito, la bomba è esplosa e il titolare ha pagato. Anche in carcere a Secondigliano Roberto D’Ambrosio e i suoi ricevevano uno stipendio mensile. A decidere di mettere D’Ambrosio su Cercola sono stati O’ Cinese, Peppino De Luca Bossa e Michele Minichini.“