Maddaloni (Ce), 11 ottobre 1983 – Francesco Imposimato, originario di Maddaloni, viene ucciso all’età di 44 anni nello stesso comune casertano dai sicari della mafia che mirano ad intimorire suo fratello, il giudice istruttore Ferdinando Imposimato. La mafia compie una “vendetta trasversale”, frutto di un patto tra Cosa Nostra, Camorra e Banda della Magliana.
Il giudice Ferdinando Imposimato era impegnato al tempo in indagini sull’omicidio di un boss della mala e su una serie di speculazioni edilizie nella capitale. Francesco lavorava presso la Face Standard e da ambientalista era impegnato nella denuncia delle cave abusive ricavate sui monti Tifatini ad opera di imprese riconducibili al capo camorrista di Marano. Sarà proprio quest’ultimo ad ordinare l’omicidio, con il supporto di un esponente della mafia e un accolito della Banda della Magliana, entrambi interessati a colpire in modo indiretto il giudice Ferdinando.
Dopo aver trascorso alcuni anni in Sudafrica, dove aveva frequentato una scuola ad indirizzo artistico, specializzandosi in cartellonistica, Franco Imposimato tornò in Italia, trovando lavoro alla FACE Standard di Maddaloni, dove operava come impiegato e sindacalista della CGIL. Sposato e padre di due figli, era impegnato nell’attività di associazioni sportive e culturali, in particolare con il “Circolo archeologico calatino” e con la sezione locale del Partito Comunista Italiano.
Fu assassinato all’uscita dalla fabbrica, mentre era in auto automobile con la moglie ed il cane per recarsi a casa dopo il lavoro.
A trecento metri dallo stabilimento, la macchina si trovò la strada sbarrata da una Ritmo 105 con a bordo tre sicari. Due di questi scesero e aprirono il fuoco uccidendolo sul colpo con 11 proiettili. Nell’agguato riuscì a salvarsi sua moglie, benché gravemente ferita dai colpi sparati da Antonio Abbate, il killer riconosciuto dalla donna anni dopo in sede processuale e appartenente al clan Lubrano-Nuvoletta di Pignataro Maggiore. La donna fu colpita da due proiettili: uno le bucò entrambi i polmoni fuoriuscendo dalla schiena mentre l’altro le rimase conficcato nel braccio sinistro. Provò ad uscire dalla macchina, ma dopo qualche passo cadde a terra svenuta e fu il suo barboncino a correre verso la portineria della fabbrica attirando sul posto i primi soccorsi. Già sei mesi prima Imposimato si era accorto di essere pedinato e gli fu assegnata una scorta quasi pro forma sospesa poi con le ferie di agosto.
In un primo momento si parlò di omicidio di terrorismo, eventualmente da ascriversi alle Brigate Rosse; il giorno successivo al delitto nella sede napoletana dell’ANSA giunse una telefonata anonima: «È stato ucciso il fratello del giudice boia», ma ben presto si rese chiara la matrice mafiosa e camorristica del delitto, come emerse nel corso del processo Spartacus.
Franco Imposimato fu vittima di una vendetta trasversale decisa dalla Banda della Magliana, con la complicità della Camorra e di Cosa Nostra per intimidire il fratello, Ferdinando Imposimato, giudice istruttore a Roma, che nel 1983 aveva depositato la prima e la seconda sentenza del processo sull’omicidio di Aldo Moro, aveva seguito diversi processi di mafia e stava indagando sulla Banda della Magliana, avvicinandosi a verità scomode.
Ferdinando Imposimato stava sferrando un duro colpo alla mafia, andando a svelare i suoi legami con la politica e le sue alleanze romane e campane. All’epoca dei fatti Cosa nostra era legata, da un lato, a Roma attraverso la Banda della Magliana, e dall’altro alla camorra casertana e napoletana nelle persone di Antonio Bardellino (capo dei casalesi affiliato a Cosa Nostra), Lorenzo Nuvoletta (boss di Marano), e Vincenzo Lubrano (boss di Pignataro Maggiore).
Pippo Calò, sentendosi minacciato dalle indagini giudiziarie, chiese ai casalesi di uccidere Franco Imposimato, per ritorsione contro il fratello giudice, un bersaglio troppo difficile da raggiungere. L’ordine passò a Lorenzo Nuvoletta, che a sua volta si rivolse a Vincenzo Lubrano, il quale infine affidò l’esecuzione materiale del delitto a Tonino Abbate e Raffaele Ligato. Il Casalesi accettarono anche perché l’impegno ambientalista di Franco Imposimato, per quanto riguarda le cave abusive di Maddaloni, andava a scontrarsi con i loro interessi. Tra i testi ascoltati dai giudici della procura di Santa Maria Capua Vetere, ci furono anche i pentiti siciliani, tra i quali spicca il nome di Tommaso Buscetta.