Il 14 e 15 settembre andrà in scena ai Bipiani di Ponticelli nella periferia est di Napoli, lo spettacolo Exaudi, con artisti professionisti e abitanti del quartiere – che si chiama così per via delle strutture abitative “temporanee” costruite in seguito al terremoto del 1980. Exaudi è l’ultima tappa del progetto #foodistribution, che mette in relazione l’analisi del processo abitativo con il teatro, la fotografia e l’illuminazione. Giunto alla sesta edizione, il progetto ideato e prodotto da Manovalanza, associazione napoletana di promozione sociale, fondata da Adriana Follieri e Davide Scognamiglio, punta a stabilire una relazione diretta e continuativa tra le collettività di aree urbane e le arti della scena. Lo spettacolo è stato preceduto da una masterclass di alta formazione, multidisciplinare. Ecco per Left il racconto della regista.
Lo spazio scenico è uno spazio urbano: siamo nel campo detto Bipiani, a Ponticelli, nella periferia est di Napoli. Precisamente lo spettacolo si sviluppa nell’interstizio tra due blocchi di containers di colore blu avio, tonalità compresa tra terra e cielo, sul retro delle abitazioni provvisorie in cui vivono in rapporto di vicinato famiglie di albanesi, senegalesi, napoletani; le loro finestre con le veneziane mosse dal vento affacciano sul nostro palcoscenico, che si estende in lunghezza per oltre trenta metri, con le due uniche quinte naturali, varchi per entrate e uscite di scena, poste in fondo, e protette da un basso muretto con un varco centrale. Il fondale naturale, costituito e incorniciato anch’esso dalle case, ha porte e finestre delicatamente protette da tende bianche. Il pavimento è irregolare e lascia intravedere fessure, tracce, buche, al cui interno le piante prendono spazio. Un tubo dell’acqua rotto le irriga. In lontananza altre case, altri tetti, vetrate, luci che si accendono a sera, un ventilatore che gira. In alto il cielo.
Questa è la prima didascalia ed è così, per chi legge come per chi assiste, che si apre allo sguardo l’allestimento site-specific dello spettacolo Exaudi.
La dignità di questa brutta periferia di noi stessi è disarmante. È una dignità silenziosa e discreta, che sembra dire: non accetto compromessi, non accetto soluzioni finte o troppo semplici. E al tempo stesso: sto in un limbo, senza tempo e senza volontà. Non abito qui. Non sono qui.
Mentre il teatro già si allarga a prendere il suo spazio ideale, la superficie reale è metronomo e regola. I tramonti spesso ci sorprendono, qualcuno con naturalezza interrompe il flusso di lavoro per dire: guarda! ed è un tuffo di bellezza che rimette tutto a posto per qualche secondo.
Il bene in mezzo al male, tutto sta incastrato come elementi di un’architettura.
Abitanti dello scivoloso dover vivere senza pensare. Artisti esposti a violente intemperie emotive. Tutti ballerini su un pavimento crepato.
Trafitti da parte a parte, puntelliamo il mondo.
Il lavoro è complesso, difficile da raccontare mentre si va costruendo, ché anche questa volta (la sesta del progetto #foodistribution a cura di Manovalanza che mette insieme la riflessione attiva e la contaminazione tra geopolitica, teatro, installazione e disegno luci urbano), ogni elemento formale e sostanziale, seppur frutto di lunga ed elaborata riflessione, si compone nel mese che precede il debutto, giorno per giorno insieme agli abitanti-attori, in forma di scrittura scenica condivisa, e grazie all’esercizio di partecipazione e co-creazione di una numerosa ed eterogenea compagine di artisti, con e senza esperienza professionale.
Ci sono moltissime persone coinvolte direttamente e attivamente nel progetto, alcune con ruoli istituzionali o ufficiali, altre la cui presenza è connotata da un desiderio trasparente di partecipazione; il modello che si realizza sembra distante anni luce dal concetto di marginalità cui verrebbe spontaneo far riferimento attraversando il luogo, studiando la sua storia e approfondendone le vicende politiche e sociali. Questa straordinaria democrazia spontanea dice molto sui bisogni delle piccole comunità, sulla capacità di suggerire e anticipare anche la resilienza pianificata e qui non ancora attuata. Qui dove sui muretti, in mezzo all’amianto delle case-containers, gli abitanti coltivano piantine di pomodori e a sera illuminano l’altarino che hanno edificato per la Madonna della neve. Qui dove in quarant’anni di vuoto istituzionale sono nate e cresciute persone che ora, nei pomeriggi e nelle sere ventose dedicate al lavoro di ricerca e creazione teatrale, compongono e giocano i pezzi di un puzzle che presto sarà completato, nel palcoscenico-casa allestito e illuminato per il pubblico a sedere.
Dal reale edificare il surreale: una letteratura scenica fantastica e poetica che nulla abbia a che vedere con la biografia, che sia trampolino per sperimentare altre altezze e altre profondità.
Lo spettacolo si divide in tre capitoli concepiti come stanze o quadri compiuti e indipendenti, che sviluppano scenicamente i temi e le domande principali della nostra ricerca artistica condivisa; la fruizione consecutiva dei tre capitoli lascia al pubblico lo spazio di collegamento e sintesi.
Mentre scrivo, dal pieno del lavoro di composizione, ne metto in discussione la successione, consapevole di quanta rivoluzione potrebbe apportare allo spettacolo e alla narrazione lo spostamento della sequenza dei capitoli e la conseguente sintesi emotiva e razionale.
Questo gioco fondato sulla combinatoria degli elementi mi lascia intravedere quanta vita possibile ci sia nell’opera che stiamo costruendo.