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Uccisa e data in pasto ai maiali: così la ‘ndrangheta uccise Maria Chindamo

Redazione Napolitan di Redazione Napolitan
8 Settembre, 2023
in Cronaca, In evidenza
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Uccisa e data in pasto ai maiali: così la ‘ndrangheta uccise Maria Chindamo
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Maria Chindamo, imprenditrice e madre di 42 anni, è scomparsa il 6 maggio 2016 senza fare ritorno ai terreni che lei, dopo il suicidio del marito, amministrava da sola tra la Piana di Gioia Tauro e il Vibonese. La donna, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, fu rapita, uccisa e data in pasto ai maiali dalla ndrangheta, che l’accusava di aver causato la morte dell’ex marito, legato al clan Mancuso. Lo aveva lasciato per un altro uomo e amministrava da sola le proprie terre. Per questo la ‘ndrangheta la condannò a morte. Oggi, a distanza di sette anni, si conosce il nome di almeno uno dei colpevoli.

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La procura antimafia di Catanzaro ha arrestato 81 persone nell’ambito di una maxi operazione, nella quale sono compresi anche Salvatore Ascone, vicino di casa di Chindamo e colpevole, insieme al figlio allora minorenne, di aver manomesso il sistema di videosorveglianza della proprietà della donna. Secondo il procuratore capo Nicola Gratteri: “Chindamo è stata uccisa quando si è permessa di postare le foto con il nuovo compagno. Dopo due giorni è stata uccisa in modo inumano. Bruciava l’idea che i terreni fossero gestiti da una donna che addirittura si sarebbe permessa di rifarsi una vita. C’è un duplice aspetto da tenere in considerazione sulla morte – continua Gratteri – da una parte non gli è stata perdonata questa libertà, la gestione dei terreni che aveva avuto in eredità e questo nuovo amore; dall’altra gli interessi, gli appetiti di una famiglia di ‘ndrangheta sul terreno. Tutto questo ha condotto all’omicidio”.

Una morte “straziante”, la definisce Gratteri. «È stata data in pasto ai maiali, e i resti sono stati poi macinati con un trattore cingolato. Questo vi dà il senso della rabbia che chi ha ordinato l’omicidio aveva nei confronti di questa donna, che non si poteva permettere il lusso di rifarsi una vita, gestire in modo imprenditoriale quel terreno, poter curare e far crescere i figli in modo libero uscendo dalla mentalità mafiosa».

Il primo a parlare della vicenda era stato il collaboratore di giustizia Antonio Cossidente, che in carcere aveva raccolto la narrazione di Emanuele Mancuso, il rampollo del clan Mancuso di Limbadi che dal giugno del 2018 ha deciso di collaborare. Tuttavia, le rivelazioni di Cossidente non erano bastate. Ora però, come ha sottolineato Gratteri, ci sono le dichiarazioni dello stesso Mancuso e di altri 16 collaboratori. Tutte coincidenti.

Motivo per il quale sono scattate le manette per Salvatore Ascone detto “Pinnularu” perché unitamente a suo figlio Rocco e a un’altra persona, successivamente deceduta, «provvedeva a manomettere il sistema di videosorveglianza installato presso la sua proprietà, limitrofa a quella della Chindamo, in modo da impedire la registrazione delle immagini, fornendo così un contributo alla commissione dell’omicidio della donna».

Due le motivazioni dell’omicidio, che si sovrappongono. La famiglia del marito Ferdinando Punturiero, vicina al clan Bellocco di Rosarno, la riteneva responsabile del suicidio avvenuto dopo la separazione. Inoltre ai suoi terreni era fortemente interessata la cosca Mancuso alleata dei Bellocco. E qui si inserisce la figura di Ascone al quale i Mancuso avevano affidato il controllo criminale della località “Montalto” dove si occupava «di acquisire i proventi estorsivi delle compravendite dei terreni e di gestire con metodologie mafiose quel territorio, nonché i rapporti con i proprietari». E arriviamo al 6 maggio 2016. L’auto di Maria viene trovata abbandonata davanti al cancello chiuso della sua azienda agricola. L’auto è aperta, con il motore acceso. Unica traccia una vistosa macchia di sangue sulla fiancata sinistra dell’auto. Ma le telecamere di Ascone smettono di funzionare proprio nei minuti dell’agguato.

Ora la drammatica conferma. In attesa di identificare esecutori e mandanti. «Oggi l’aria ha il profumo della giustizia» commenta Vincenzo Chindamo. «Aver perseguito per tutti questi anni la ricerca della verità sull’uccisione di mia sorella alla fine ha dato risultati. Non ho mai smesso di credere nell’operato della magistratura, anche quando ci poteva essere qualche momento di sconforto. E quanto è emerso oggi premia quella perseveranza». Così Vincenzo e tutta la famiglia di Maria in questi anni si sono fortemente impegnati assieme a tanti altri familiari delle vittime di mafia. «La ‘ndrangheta e la subcultura di ‘ndrangheta, se ancora fosse necessario ribadirlo, sono retrograde e perdenti, mentre la bellezza e il sorriso di Maria, pur tra le nuvole, splendono ancora».

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