Nelle ore successive all’esplosione della bomba piazzata in via Crisconio, nel cuore del quartiere Ponticelli, la notte del 18 marzo del 2021, in pieno lockdown e anche in seguito a quella lanciata nel cortile dell’abitazione del boss Marco De Micco in via Piscettaro, i responsabili delle due azioni camorristiche eclatanti inscenarono un vero e proprio depistaggio finalizzato a far ricadere i sospetti degli inquirenti, ma anche dei clan intenzionati a replicare all’affronto subito, su un soggetto ben preciso: Romualdo Amitrano, rispettivamente genero e figlio del ras Domenico Amitrano.
Dietro quella strategia si celava un disegno ben preciso e finalizzato a liberarsi di soggetti scomodi che in quel momento storico stavano dando filo da torcere ai De Luca Bossa, auspicando che potessero così finire in manette o peggio ancora stritolati nella morsa della vendetta azionata da chi aveva avviato immediatamente delle indagini parallele a quelle degli inquirenti per stanare il responsabile e regolare i conti applicando le ben più efferate leggi della camorra.
Dalle conversazioni telefoniche che Umberto De Luca Bossa ha intrattenuto con il suo braccio destro Alessandro Ferlotti, mentre era in carcere, servendosi di un telefono cellulare che divideva con Roberto Boccardi, suo compagno di cella, trapela che Ronza e Amitrano junior stavano pestando i piedi all’organizzazione, estromettendola dal controllo di alcune piazze di droga radicate nelle zone di competenza proprio di Umberto, suscitando l’ira e il disappunto di quest’ultimo.
I primi attriti nacquero poco a metà dicembre del 2020 e si sono protratti per diverso tempo.
All’indomani dell’esplosione della prima di una lunga serie di ordigni, quello piazzato in via Crisconio nel cuore della notte del 18 marzo del 2021, nessun clan rivendicò la paternità dell’attentato. Un’anomalia assoluta per chi bazzica nel contesto camorristico che mandò in tilt i clan attivi sul territorio che diedero il via ad una serratissima indagine finalizzata a risalire al colpevole, ma anche al movente. In quel clima, l’ipotesi che si fece spazio con maggiore insistenza era quella che conduceva proprio al figlio di Domenico Amitrano, reo di aver avuto una discussione piuttosto accesa con il figlio di un elemento di spicco del clan De Micco che abitava proprio nel palazzo nei pressi del quale era stata fatta esplodere la bomba, tant’è vero che la sua auto, parcheggiata in zona, subì notevoli danni. Uno scenario plausibile, perchè i due giovani figli di ras di clan avversari si erano più volte beccati nei giorni precedenti. Erano volate parole pesanti in presenza di testimoni, ma anche inseguimenti con pistola ben in vista che annunciavano l’intenzione di passare dalle parole ai fatti.
Uno scenario utilizzato prontamente da chi aveva interesse a seminare confusione, in un momento storico di per sé concitato. Appena pochi giorni prima, nel rione Fiat, era stato ucciso Giulio Fiorentino, 28enne contiguo al clan De Martino. Un delitto che sarebbe scaturito dall’accordo tra i clan alleati di Napoli est e i De Martino per porre fine alla faida in corso. Quella bomba esplosa in una zona in cui vivevano anche diversi parenti dei Casella poteva lasciar presagire che i De Martino non avessero rispettato gli accordi, dichiarandosi platealmente intenzionati a vendicare la morte dell’amico e affiliato. Tuttavia, in quella zona si registrava anche la presenza di molti parenti e famiglie affiliate ai De Micco.
Uno scenario caotico ulteriormente stravolto dall’ipotesi che su quell’attentato ci potesse essere la firma di Amitrano Junior.
Un copione che si è ripetuto appena sei mesi dopo, in seguito all’esplosione di un ordigno nel cortile di casa del boss Marco De Micco, scarcerato proprio in seguito al raid che fece ripiombare Ponticelli nell’incubo della faida di camorra. Quella piazzata a settembre del 2021 fu una bomba che indirizzò un duplice affronto al fondatore del clan De Micco: in primis, aveva attirato su di lui l’attenzione dei media e degli inquirenti, ma soprattutto l’esplosione era avvenuta nella zona in cui fino a pochi attimi prima la figlia del boss stava giocando con i cuginetti. Un oltraggio che per un boss cinico come Marco De Micco poteva essere cancellato solo in un modo: uccidendo l’autore del raid. I gregari del boss avviarono delle serrate indagini a tappeto fin da subito. Una sequenza di ordini e strategie interamente intercettata dagli inquirenti. E proprio dai dialoghi sempre più concitati che si avvicendavano in quelle ore in casa De Micco, trapela un retroscena che conferma il depistaggio avviato dai responsabili del raid per la seconda volta.
Nei giorni successivi all’attentato indirizzato a Marco De Micco, Aldo Amitrano si era recato più volte a casa del boss chiedendo con insistenza di parlargli, proprio per volersi sincerare che il leader dei Bodo non avesse dato adito a quelle voci e che pertanto fosse sicuro della sua estraneità ai fatti, consapevole del rischio al quale sarebbe stato esposto in caso contrario. Dal suo canto, fin da subito, Marco De Micco appare orientato verso tutt’altre direzioni e nell’arco di una settimana arriverà ad indentificare il presunto autore del raid e a pianificare l’agguato in cui verrà ucciso: Carmine D’Onofrio, il 23enne figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa che abitava in via Crisconio, a due passi dal palazzo finito nel mirino dell’attentatore entrato in azione la notte del marzo del 2021.