Le indagini presero il via nell’aprile del 2016, quando in casa di Luisa De Stefano, furono sequestrati della droga e alcuni manoscritti. Le intercettazioni, a partire da quel momento, hanno consentito agli inquirenti di accertare che l’abitazione della “pazzignana” Luisa De Stefano era stata adibita a quartier generale di un cartello camorristico nascente, principalmente costituito dai fratelli Michele, Alfredo e Martina Minichini, Vincenza Maione e Tommaso Schisa, rispettivamente cugina e figlio della De Stefano, ma anche da Anna e Umberto De Luca Bossa. Un’organizzazione tutt’altro che esclusivamente dedita all’attività di spaccio di stupefacenti, ma che aveva acquisito tutti i tratti distintivi del clan di camorra, in quanto capace di incidere sugli equilibri criminali ed esercitare un controllo capillare del territorio. La disposizione di armi e la predisposizione di agguati nei confronti di affiliati ai clan rivali, tra le altre cose, rappresenta una delle prove granitiche della nascita del nuovo sodalizio.
Proprio un delitto eccellente consacra e ufficializza la presenza della nuova organizzazione. Un agguato pianificato nei minimi dettagli e ricostruito dagli inquirenti prima grazie alle intercettazioni e poi con il supporto delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, due su tutti: Tommaso Schisa, figlio della pazzignana Luisa De Stefano e Antonio Rivieccio, uno dei due killer entrati in azione per eliminare Raffaele Cepparulo, esponente del clan Esposito-Genidoni, i cosiddetti “barbudos” del Rione Sanità.
Un delitto sul quale c’è la firma dell’organizzazione capeggiata da Luisa De Stefano, nonchè espressione di un nuovo cartello camorristico, sotto le direttive di Ciro Rinaldi, al quale aderirono i Minichini, ma anche i De Luca Bossa, rafforzati dalle scarcerazioni di Giuseppe De Luca Bossa, Domenico Amitrano – nipote dei Sarno, confluito nell’alleanza malgrado l’omicidio del cugino Luigi Amitrano compiuto da Antonio De Luca Bossa – e Francesco Audino detto “il cinese”. A dar man forte ai vecchi clan di Napoli est, anche gli Aprea di Barra, Antonio Acanfora e Ciro Imperatrice, stimati essere le figure apicali dell’organizzazione.
La condivisione delle scelte criminali da parte dei membri dell’organizzazione verrà pienamente confermata dalla condanna all’ergastolo in via definitiva per tutti gli affiliati che a vario titolo hanno partecipato all’omicidio Cepparulo: Michele Minichini, Anna De Luca Bossa, Luisa De Stefano, Vincenza Maione, Ciro Rinaldi e Antonio Rivieccio.
Ciascuna organizzazione aveva piena autonomia gestionale nel proprio territorio – in termini di pratiche estorsive, gestione della compravendita delle case popolari, ma anche dell’attività di spaccio di droga e delle imprese di pulizie – ma i proventi delle attività illecite confluivano in una cassa comune dove venivano prelevate le quote da destinare ai capi famiglia, gli stipendi per gli affiliati e le somme destinate al mantenimento e alle spese legali dei detenuti.
Le scelte strategiche, così come le decisioni più importanti venivano prese dai capi dell’alleanza, individuati nei reggenti delle singole famiglie che la costituivano, i quali si occupavano anche di stabilire e distribuire gli stipendi agli affiliati e ai detenuti, di attribuire a ciascun affiliato una mansione specifica, di intervenire in caso di contrasti interni, di decidere o pianificare azioni di fuoco contro esponenti delle fazioni camorristiche avverse, di approvare l’introduzione di un nuovo affiliato o deliberarne l’espulsione.
Raffaele Cepparulo, soprannominato “Ultimo” era un elemento di spicco del clan Esposito-Genidoni del rione Sanità, uno dei pochi rimasto a piede libero dopo gli omicidi di Ciro e Pietro Esposito e una serie arresti, anche a carico delle donne del clan. Sapeva di essere finito nel mirino dei rivali – i Vastarella-Sibillo-Rinaldi – in seguito alla “Strage delle Fontanelle” e si è pertanto allontanato dalle cosiddette “Case Nuove”, la zona di cui era originario e dove era stato più volte cercato dai sicari e cercò rifugio e protezione a Ponticelli, forte dell’amicizia con Umberto De Luca Bossa, finendo così inconsapevolmente proprio nella “tana del lupo”, in quanto ignaro dell’alleanza tra i vecchi clan di Napoli est, di cui i Rinaldi erano perno portante e nella quale erano confluiti anche i Sibillo e i Contini, tant’è vero che il killer Michele Minichini entra in azione per ucciderlo insieme ad Antonio Rivieccio, affiliato al clan Sibillo.
La decisione di eliminare Cepparulo matura nel contesto delle rivalità tra i Mazzarella – ai quali il boss del rione Sanità era legato – e i Rinaldi, perno portante dell’alleanza. La condanna a morte scaturisce in seguito a due azioni intimidatorie compiute da Cepparulo: una contro l’abitazione del boss Ciro Rinaldi e l’altra contro l’abitazione di Michele Minichini e di sua madre, Cira Cipollaro. In entrambi i casi, “Ultimo” portò a compimento una “stesa” indirizzando contro l’abitazione di due esponenti della cosca rivale diversi colpi d’arma da fuoco a scopo intimidatorio.
A ordinare l’omicidio fu Ciro Rinaldi, concretamente realizzato dalle pazzignane, supportate da Michele Minichini, il quale entrò in azione per uccidere Cepparulo, non solo per vendicarsi del raid indirizzato all’abitazione in cui viveva con sua madre, ma soprattutto per bruciarlo sul tempo, in quanto aveva appreso che stava assumendo informazioni sul suo conto, molto probabilmente con l’intenzione di organizzarsi per ucciderlo.
Un omicidio che colse alla sprovvista i clan operanti nell’area orientale di Napoli, ignari dell’esistenza dell’alleanza tra i Rinaldi-Sibillo-Minichini-Schisa-De Luca Bossa che proprio mettendo la firma su quell’azione delittuosa ufficializzò la sua presenza sul territorio.